Bullet Train, recensione: divertente e folle come Deadpool sul trenino Thomas

Cosa vi aspettereste di trovare nella recensione di Bullet Train? Sangue, pallottole e katane, ma anche un inaspettato intreccio di destini.

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a cura di Elisa Erriu

Destino” è la parola perfetta per riassumere Bullet Train, l’ultima pellicola di David Leitch: meglio non provare a fermare lo scorrere del destino, perché se lo fai, potresti trovarti travolto da un treno proiettile. Meglio sederti in carrozza e goderti il viaggio, vero? “Destino” è anche una parola ricorrente in un film che apparentemente si propone come una folle corsa attraverso il Giappone, tra assassini, battute, sangue e numerosi stereotipi degli action movie, ma in realtà sembra voler aspirare a qualcosa di più. Ed è forse questo il suo grande difetto. Forse. Ecco cosa pensiamo dello spettacolo più coreografico, colorato e “atomico (biondo)” di uno tra i registi più d’azione del momento.

Non puoi combattere il Destino. A meno che…

Come anticipato, David Leitch ha riposto una grande tematica in Bullet Train, conseguentemente una grande responsabilità: gli ha dato in dono il senso del destino. Tutti i suoi protagonisti sono legati dal filo rosso del destino, a partire dal personaggio di Brad Pitt, niente più che una sorta di criminale dal nome in codice Ladybug. Proprio lui sembra perseguitato da un destino sfortunato, dato che deve sostituire un collega in una missione che si rivelerà tutt’altro che semplice, trovandosi a bordo del “treno proiettile”, ovvero lo shinkansen, in compagnia di letali assassini. Si prospetta una corsa folle, acrobatica, con colpi di scena, da Tokyo a Kyoto a più di 300 chilometri all’ora.

Il destino è tra la prima e la seconda classe, ma non è un personaggio facile con cui avere a che fare: prima di Bullet Train ci hanno dovuto fare i conti soprattutto le più grandi storie, a partire dal Signore degli Anelli, Avatar, il Gladiatore fino a Star Wars. Come può entrare un simile protagonista dentro 16 vagoni di uno Shinkansen? Sembra cozzare con l’anima action e violentemente pop promessa sin dai primi trailer di Bullet Train. E ve lo diciamo subito: è così infatti. La trama proposta, ispirata dal romanzo best seller di Kōtarō Isaka, I sette killer dello Shinkansen, sembra a un certo punto deragliare, proprio per colpa del destino. La scelta narrativa di voler spingere tanto sulle motivazioni dei personaggi, sul perché il destino li abbia posti su quei binari, con un tono da thriller/giallo al fine di donare loro spessore e/o morale, distoglie l’attenzione da quella sgargiante e divertente patina fatta a colpi di katane e pallottole. Il risultato finale è una sceneggiatura poco efficace dentro a un film così tanto d’azione e se si presta troppa attenzione, si finisce disorientati. E si perde il treno.

Il serpente di Cechov

Ricordate Anton Cechov e quello che diceva sui colpi di scena? “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”? Ecco, ancora una volta lui, il concetto del destino. Però questa forma di casualità è stata resa egregiamente in Bullet Train. Tutto si incastra e ruota dentro il film proprio seguendo l’ordine di Cechov: appare un personaggio, dovrà fare qualcosa e ciò è valido per tutto, oggetti, pistole, bottigliette d’acqua e serpenti inclusi. Man mano che la narrazione prosegue, assistiamo alle storie e alle relative evoluzioni dei protagonisti. Se le loro motivazioni non convincono o loro stessi non risultano sufficientemente drammatici, almeno la scelta narrativa che li intreccia gli uni con gli altri, incastrandoli e scontrandoli, delizia lo spettatore senza farlo annoiare troppo. Sempre se non cercavate davvero un film impegnato. Ma da un film con Brad Pitt che parla delle toilette giapponesi, con Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry che discutono perché chiamarsi rispettivamente Tangerine e Lemon, con un lungo dialogo in merito al trenino Thomas, non vi aspettavate davvero un film troppo “serio”. Giusto?

Ciak, Fight, Azione!

Se partiamo appunto da quel presupposto iniziale di voler assistere allo spettacolo senza problemi, senza domande, fermi, rilassati sulla poltrona, pronti ad assistere ad azione e sangue vietati ai minori di 14 anni, allora sì che ci divertiamo. Azione pura, il tocco (letale) di chi ha diretto, prodotto e movimentato alcuni degli action movie più belli di circa gli ultimi vent’anni: in Bullet Train si vedono i frutti dell’esperienza di David Leitch come stuntman in Fight Club, Ocean’s Eleven, Buffy, Daredevil, Matrix e 300, e l’azione non sta soltanto nelle arti marziali, nei colpi e nelle coreografie ben ritmate, ma lo si vede soprattutto nei colori al neon alla Deadpool 2 e nelle sfumature dei personaggi alla John Wick, con quel detto non detto, vedo non vedo.

Gli perdoniamo i suoi difetti, per le musiche ridoppiate in giapponese, per le maschere Oni, per un Brad Pitt azzeccato, azzeccatissimo nel ruolo, per i cameo davvero spassosi e per le quasi due ore di sfrenata, liberatoria azione che ci ricordano che, ogni tanto, il destino del cinema è ancora quello di farci (anche) divertire.

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