Black Panther: Wakanda Forever e l'elaborazione del lutto nel Marvel Cinematic Universe

Con Black Panther: Wakanda Forever il Marvel Cinematic Universe conclude il suo percorso di accettazione della perdita

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a cura di Manuel Enrico

Solamente chi ha sofferto, può essere un grande leader. Con queste parole si apre l’ultimo trailer di Black Panther: Wakanda Forever, il secondo capitolo delle avventure dell’eroe wakandiano disponibile a partire dal 1° Febbraio in streaming su Disney Plus, che rientra appieno all’interno di quel complesso percorso di elaborazione del lutto e della perdita che è stata la Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe. Come la maggior parte delle altre produzioni di questa fase del franchise, anche il ritorno in Wakanda è stato funestato da eventi luttuosi e ferite dell’anima, mantenendo un file rouge con la continuity della saga che sembra avere radicalmente cambiato il proprio approccio emotivo. Ripensando ai capitoli più amati del franchise, dal primo Iron Man ad Endgame passando per l’iconico Avengers, la dimensione cinematografica dei personaggi della Casa delle Idee è sempre stata gestita su una dinamica in cui i protagonisti, per quanto messi duramente alla prova, venivano in un certo senso preservati dal dolore della perdita.

A ben vedere, il primo accenno a questa vena di sofferenza degli eroi marveliani era comparsa in Captain America: Civil War, dove i due pilastri degli Avengers del periodo, Tony Stark e Steve Rogers, affrontarono la loro personale esperienza con la perdita. Se per Stark si trattava di un processo di elaborazione mai compiuto, venato da un senso di colpa per un addio poco amorevole con il padre, per Rogers questo prese la forma dell’addio all’amata Peggy Carter, l’amore mai concretizzato rivestito di rimpianto e senso dell’occasione perduta. In entrambi i casi, però, si è arrivati a una sorta di chiusura, con Stark che riesce ad avere un emozionante dialogo con il padre e lasciando che Rogers, compiuto il suo dovere, possa finalmente godersi il meritato amore di Peggy. Due percorsi che giungono al termine, lasciando una sensazione di completezza, ma che hanno, come conseguenza, quella di consegnare agli spettatori un nuovo Marvel Cinematic Universe privo di punti di riferimento.

Con Black Panther: Wakanda Forever il Marvel Cinematic Universe conclude il suo percorso di accettazione della perdita

La perdita come nuovo inizio per il Marvel Cinematic Universe

Endgame ha lasciato agli eroi sopravvissuti un mondo molto diverso da quello che avevano giurato di proteggere. Thanos, con il suo schiocco di dita, ha stravolto la percezione stessa dell’eroe per l’uomo comune, non più figura infallibile, ma essere fallibile. E soprattutto persona con affetti di cui può esser privata, che si tratti di mentori, come Tony Stark e Peter Parker, di amici, come Clint Barton e Natasha Romanoff o di Sam Wilson e Steve Rogers, o di amori, come nel caso di Wanda Maximoff e Visione. L’eredità della Fase Tre del Marvel Cinematic Universe è, a tutti gli effetti, una maceria emotiva, in cui quello che abbiamo festeggiato come un trionfo nel finale di Avengers: Endgame non tarda a rivelarsi come una vittoria amara, da pagare a caro prezzo.

Sotto questo aspetto, la Fase Quattro è una complessa terapia di gruppo per gli eroi marveliani, in cui la perdita è il centro emotivo. Sin dai primi passi di questo capitolo del franchise, infatti, le assenze e le ferite non guarite sono state messe a nudo, cominciando da Spider-Man: Far From Home, dove il giovane Peter si trova a dover costantemente confrontarsi con l’assenza di Stark, il suo mentore, il suo amico. L’evoluzione di Peter in questa fase del Marvel Cinematic Universe è una sequenza di perdite, da Stark a May sino alla rinuncia di MJ, per proteggerla dopo aver visto il pericolo che può rappresentare la sua doppia vita, come abbiamo scoperto in Spider-Man: No Way Home. Nuovamente, per fare crescere un personaggio si insiste sulla sofferenza, sulla rinuncia, che pur essendo un tratto comprensibile del personaggio, sembra essere divenuto l’unico spunto narrativo rimasto agli sceneggiatori del Marvel Cinematic Universe per raccontare il futuro degli eroi marveliani. Come se il leggendario mantra di Stan Lee ‘Da grandi poteri derivano grande responsabilità’ sia stato infine mutato in ‘da grandi responsabilità derivano grandi sofferenze’.

Si potrebbe opinare che i comics della Casa delle Idee hanno spesso inferto ai propri protagonisti momenti di grande patimento, da La Notte in cui morì Gwen Stacy alla morte della piccola Ilyana Rasputin, uno dei momenti più strazianti del Marvel Universe. Nel medium fumettistico, tuttavia, queste tragedie sono state diluite all’interno di decenni di storie, costruendo dei pregressi personali dei personaggi e offrendo sempre una rinascita emotiva. Un elemento che è mancato all’interno della Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe, dove la perdita sembra essere la chiave emotiva di questa fase, una condanna ineluttabile a cui tutti gli eroi devono sottoporsi.

La Fase Quattro è una grande terapia di gruppo

Idea che sarebbe anche stata un’ottima base narrativa, considerati gli eventi devastanti di Infnity War e Endgame, ma non si sarà calcata un po’ troppo la mano? I lutti che hanno colpito i personaggi storici del franchise erano sotto gli occhi tutti, si potevano quindi gestire con una certa delicatezza, prendendosi il tempo di fare assimilare agli spettatori questo nuovo tenore opprimente del Marvel Cinematic Universe. La sensazione è che si voglia privare il supereroe della sua aura di carismatica invincibilità, andando mostrare la contropartita della vita supereroica: devi perdere ciò che ami, devi fare delle rinunce. Con buona pace di uno Steve Rogers che dopo avere salvato il mondo più volte, giustamente appioppa lo Scudo a Sam e va a godersi la meritata ricompensa per l’onorato servizio.

Questo voler imporre ai volti del Marvel Cinematic Universe una sofferenza estrema e continua dopo che hanno salvato il mondo, sembra essere una disperata mossa per cambiare l’assetto emotivo di un franchise che sta iniziando a mostrare i segni di una stanchezza narrativa, per dargli un tono più maturo, ma senza trovare il giusto equilibrio tra intenzione e realizzazione. Il mutare della società civile del Marvel Cinematic Universe merita una sua valorizzazione, come è stato fatto con i Flag Smasher in The Falcon and the Winter Soldier, perché contribuisce a dare continuità alla saga, fornendo un supporto narrativo maturo per le future produzioni, andando oltre al semplice concetto di supertizi in armatura ma dando risalto anche al lato umano del supereroe.

Dove questo lodevole intento inizia a scricchiolare è nell’ostinata ripetizione di questo concept, che nella Fase Quattro è sin troppo presente. Non si tratta più della correlazione superpoteri-responsabilità, che possiamo ritrovare ad esempio in She-Hulk: Attorney at Law e Ms. Marvel, ma di una voglia di mostrare la devastazione interiore di questi eroi che rasenta l’accanimento. I grandi eventi della Fase Quattro, come Doctor Stange nel Multiverso della Follia e Thor: Love and Thunder, sono sempre segnati da una perdita straziante per i protagonisti, al punto che si può vedere, in queste figure prima considerate come esseri invincibili, dei personaggi tragici. Se da un lato è apprezzabile la scelta di voler premiare la valorizzazione dell’umanità di questi eroi, enfatizzandone anche la caducità e la fallibilità, dall’altro viene da chiedersi se questa continua riproposizione della perdita, che sia lutto o rinuncia, non sia divenuta la vera debolezza della Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe.

Black Panther: Wakanda Forever, l'ultima perdita del Marvel Cinematic Universe

Black Panther: Wakanda Forever, giungendo al termine della Fase Quattro, rappresenta l’ideale finale di questo lungo, estenuante processo di elaborazione e accettazione. Destino ha voluto che fosse proprio il film in cui avrebbe dovuto tornare Chadwick Boseman, talento attoriale prematuramente scomparso, aggiungendo a quello che era un tratto distintivo di questa fase del Marvel Cinematic Universe una valenza ancora più marcata. Per stessa amissione di Coogler e Moore, il concetto di perdita era già presente nelle prime idee del seguito di Black Panther, ma la volontà di non dare vita a un recasting del personaggio ha portato a spostare questa analisi interiore rendendola la dinamica narrativa del film, investendo le figure femminili del compito di farsene interpreti.

Scelta che consente di preservare la linearità del Marvel Cinematic Universe, evolvendo i personaggi coinvolti, ma che rischia di presentare agli appassionati nuovamente un tema sin troppo esplorato ed abusato dal franchise. Per quanto apprezzabile l’aver voluto creare una correlazione tra il nuovo mondo post-Endgame, visivamente più cinico rispetto alle precedenti fasi del franchise, e le sofferenze interiori dei personaggi, la speranza è che i prossimi capitoli del Marvel Cinematic Universe sappiano andare oltre questo unico spunto narrativo, ritornando a offrire una visione più ampia del ruolo dell’eroe, esplorando una gamma emotiva varia e che non si limiti a vedere solamente nella sofferenza e nella perdita l’essenza di un supereroe.

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