Black Panther nasce sulle pagine di Fantastic Four #52, data di copertina luglio 1966, creato dalla penna di Stan "The Man" Lee e Jack "The King" Kirby ma quando si parla di narrativa, di storie, o più semplicemente di idee, la paternità di un concetto non è sempre così chiara. Certo, se dicessimo che un personaggio è stato creato da un duo di autori, avremo di base ragione, ma spesso non si prendono in considerazione un paio di fattori cruciali. Il primo è che, in un ambiente di lavoro creativo, le idee "rimbalzano" così tanto, che la loro provenienza non è mai veramente chiara, ed il secondo è che spesso l'idea grezza non ha sempre lo stesso peso di quella raffinata spesso inevitabilmente successiva alle intenzioni del creatore originale. Oggi è facile dire che Batman non uccide, o che "da gradi poteri derivano grandi responsabilità" (la frase topica di Spider-man) sia stata pronunciata dallo Zio Ben, ma nulla di tutto ciò aveva riscontro nelle loro prime apparizioni. A volte, il "centro" di un personaggio, la sua versione più famosa, o quella più iconica, non viene da chi lo ha creato, la sua paternità è merito di altri, che non sempre però hanno il giusto riconoscimento.
E quando si parla del ciclo di Black Panther di Cristopher Priest, si parla proprio di questo.
Black Panther di Cristopher Priest: nuovi autori, nuovi orizzonti
Facciamo un salto nel passato, al 1998: Marvel Comics è in bancarotta. Si decide così di provare ad uscire dalla difficile situazione ampliando il parco testate e cercando di catturare l'attenzione di un pubblico nuovo, ma anziché applicare questa soluzione "internamente", si prende un'altra strada invitando Joe Queasada e Jimmy Palmiotti, proprietari del piccolo studio noto come Event Comics, a gestire una nuova linea di titoli basati su personaggi tutto sommato minori, che si focalizzasse non tanto su lunghe storie seriali inserite nel contesto di un grande universo Marvel, ma su avventure più contenute con un taglio più adatto al lettore moderno, o a quella creatura leggendaria nota come "il nuovo lettore" da sempre la preda più ambita dagli artigli di chi i fumetti li fa.
Quesada e Palmiotti si metteranno subito al lavoro, e riusciranno a coinvolgere in questa nuova avventura moltissimi autori di fumetti indipendenti che oggi sono nomi importantissimi della scena mainstream americana (citiamo ad esempio Brian Micheal Bendis e Garth Ennis), e in breve tempo, grazie alle minori restrizioni e ad una vagonata di nuove idee, Marvel Knights (detto anche MK in alcuni circoli) si rivelerà un vero successo di pubblico e critica, e darà vita ad ad un vero e proprio processo di rinascita per personaggi che ormai sono icone della cultura pop come Daredevil (che dopo l'acclamato ciclo di Frank Miller era un po' caduto lontano dai gusti del pubblico) o The Punisher. Ma, uno dei personaggi che più verrà cambiato, trasformato e “cementificato” nell'immaginario, sarà proprio T'challa, alias Black Panther, signore dello stato africano del Wakanda, il primo eroe di colore dalla Marvel.
L'idea base per il rilancio targato MK di Black Panther sarebbe stata quella di produrre una maxiserie di 12 numeri, che desse vita ad una storia complessa ma compatta come era il progetto iniziale dell'etichetta. Per questo si pensò di affidare questa avventura allo scrittore Cristopher Priest. Priest, era stato negli anni un tirocinante, uno scrittore ed un editor (questo uno dei suoi compiti migliori, e mai troppo celebrati) per grandi e meno grandi case editrici ma sebbene avesse scritto alcuni dei fumetti più venduti dell'epoca, come il primo scontro fra Spider-Man e Wolverine, per anni, nessuno aveva mai dato a Priest, quello che era di Priest.
Quesada e Palmiotti, erano grandissimi fan della serie Valiant “Quantum & Woody”, che il buon Cristopher stava scrivendo in quel momento, e così alzarono il telefono, e proposero allo scrittore di salire a bordo della nave MK scrivendo Black Panther. Priest accettò, dopo un periodo di riflessine, consegnando una prima sceneggiatura, che Palmiotti e Quesada incredibilmente rifiutarono chiedendo qualcosa di più "particolare" sulla scia di quello fatto con Quantum e Woody.
Black Panther di Cristopher Priest: sulle spalle dei giganti
Priest si riscrisse la sua storia, facendo sì quello che gli venne chiesto, ma anche barando un pochetto. Prima di Priest infatti, Black Panther era stato un personaggio scritto da un pugno di autori. Certo, l'eroe felino era stato membro dei potenti Avengers per anni, ed aveva fatto numerose apparizioni in gruppo, ma aveva avuto solamente una manciata di avventure in solitaria. Nel 1973, la Pantera Nera, sotto la direzione di Don McGregor aveva pattugliato il suo mondo sulle pagine di Jungle Action. Nel 1977 aveva poi avuto la sua prima serie regolare sotto la guida del suo co-creatore Jack “King” Kirby, e per tutti gli anni 80 c'erano stati alcuni speciali scritti da Peter Gillis, tutte storie che nel bene o nel male avevano cambiato la Pantera, e l'avevano fatta evolvere, Priest voleva fare di più: voleva ricostruire il personaggio dalle fondamenta.
Cosa si sapeva di Black Panther? Beh, si sapeva che era il re di un piccolo paese africano fittizio, diventato ricchissimo e tecnologicamente avanzato grazie ad un minerale alieno chiamato Vibranio. Si sapeva che pur trattandosi di un paese tecnologico c'era una forte idea di tribalità nel Wakanda, e si sapeva che gli intrusi e la cultura esterna non era molto ben vista dai Wakandiani. E così, Priest prese tutto questo, e vi aggiuse una dimensione tutta nuova: quella della realpolitik. Black Panther quindi non era più solo un supereroe, un vigilante in senso stretto, ma si metteva finalmente enfasi anche su quanto fosse pesante il capo di chi porta la corona, e quando le responsabilità di T'challa non si fermassero solo dal picchiare dei borseggiatori.
Tutto questo nuovo mondo reale così vicino ma così distante dal lettore comune, aveva però bisogno di qualcosa: di una lente di ingrandimento, di un punto di vista. Ed ecco l'arma segreta: Everett K. Ross, agente governativo e liason con il Wakanda, che si sarebbe occupato, nel primo ciclo di storie, di fungere da aiutante per il sovrano del Wakanda, diventando poco a poco amico e consigliere del Re. In Nemico Pubblico, una storia che iniziava in medias res saltando poi da un punto temporale all'altro con un sapiente uso di flashback e flashforward, Everett era un'ancora con tre livelli di profondità diversa: da un lato, era un narratore, un punto di vista normale in un mondo folle, che aiutava il lettore a districarsi fra i misteri della giungla reale e metaforica della storia. Dall'altro, Ross era in alcuni casi un vero e proprio co-protagonista, una voce della ragione o dell'emozione a seconda della situazione affrontata in quel momento. E per finire, Ross era una critica sociale all'idea che spesso una cultura creda di sapere tutto o essere un'autorità su ogni argomento. Ma del resto, la visione politica, più o meno visibile, nei fumetti di supereroi c'era sin dalle origini, non poteva mancare anche in una storia così.
Black Panther di Cristopher Priest: il mondo della pantera
Nel Black Panther di Cristopher Priest, Pantera Nera è un politico, un sovrano, un sacerdote, un messia, ma soprattutto un uomo, che sente il peso di dover gestire tutti questi aspetti di sé stesso. Non solo il suo paese, i suoi amici si aspettano da lui il meglio, ma è lui stesso a voler dare tutto il possibile per il suo paese, con tutte le limitazioni e le difficoltà del caso.
T'challa ci viene mostrato come algido, freddo, calcolatore, astuto e stoico, ma anche divorato dai dubbi e dai sensi di colpa. Proprio in queste storie vengono introdotte le Dora Milaje, un retaggio del Wakanda più tribale, e che negli anni abbiamo visto trasformate in una guardia reale composta solo da donne (ispirato dalle Mino, il reggimento femminile noto in occidente come “Le Amazzoni del Dahomey”, oggi noto come Benin), ma che in principio altro non erano che un paio di ragazzine scelte fra tutte le tribù del Wakanda per servire la Pantera come guardie del corpo, e come possibili future mogli. Appena adolescenti, queste "adorate" possono parlare solo con il loro re, e solo in Hausa, uno degli idiomi più parlato in Africa, ma poco diffuso in Wakanda. Un qualcosa che fa venire i brividi, e li fa venire anche a T'challa.
Se dall'esterno, il nostro eroe appare sempre solido, e tutto d'un pezzo, nel suo cuore non può che palesarsi il dubbio, che forse le tradizioni del suo popolo siano sbagliate, e le conseguenze che tale processo di fidanzamento può avere sia sulla sua psiche, ma soprattutto su quella delle due ragazze.
E come questa tradizione, T'challa era anche divorato dal timore di dover prendere decisioni impopolari, per il bene del mondo, rischiando però di perdere sé stesso. T'challa nasceva con Jack “King” Kirby e Stan Lee come una fusione perfetta fra misticismo e scienza, un uomo di due mondi che vivevano assieme in perfetta armonia, ed era poi stato Don McGregor a dare al personaggio una dimensione politica e a disturbare un po' il suo equilibrio. Priest lega il personaggio a quattro cavalli narrativi, e questi ultimi, tirano la Pantera fino a quasi squartarlo emotivamente. In questa serie c'è sì l'azione, tipica del supereroismo più scontato, certo, c'è la grande connessione con l'Universo Marvel in toto che porta anche alla risoluzione all'interno della trama di vecchie storie lasciate in sospeso su serie Marvel che erano state chiuse tempo prima (questa era una mossa usatissima negli anni '70/'80 della Casa delle Idee, e Priest aveva imparato bene la lezione), ma c'era anche una visione d'insieme, una prospettiva aperta verso la differenze culturali, l'incomunicabilità delle tradizione, e la difficoltà di conciliare i sogni di un uomo e le sue responsabilità.
Attraverso soluzioni inedite, Black Panther di Cristopher Priest non solo si siede sulle spalle dei giganti che lo hanno preceduto, ma li incorpora nella sua narrativa sia con serietà, sia con colpi di coda bizzarri che avrebbero senso solo in un fumetto. Dalla lotta contro un nemico quasi invincibile che viene vinta grazie ad un colpo di telefono, all'arrivo all'interno della storia di una versione di T'Challa basata sulla sua incarnazione anni '60, che si muove e parla proprio con lo stile e l'esagerazione di quel periodo, facendolo sembrare quasi una versione in carne ed ossa del Wile E. Coyote di LooneyTunesiana memoria, ma con una patina di cupezza e di ombra che ben bilancia la sua totale solarità, in gioco di contrasti delizioso.
Black Panther di Cristopher Priest: disegnare la regalità
Ad accompagnare Black Panther di Cristopher Priest, un ciclo lungo 62 numeri, ci sarà un pool di disegnatori immenso, sia per numero sia per talento, a partire da un Mark Texteira che aiuterà a ridefinire il look del personaggio, aggiungendo al costume un tocco tribale ma regale, il poliedrico Jim Calafiore ed il suo dinamismo squadrato, ma quello che sarà il disegnatore regolare per il tempo maggiore sarà Sal Velluto. Classe 1956, le influenze di Velluto erano un sapiente incontro fra la solidità di Alex Raymond, e la plasticità di Neal Adams, rendendolo un regista perfetto per le avventure di una montagna di carisma, agile come un felino. Se la Pantera Nera di Texteira era un'enorme macchia scura in mezzo alla skyline di New York, la cui massa torreggiava su quasi tutti i membri del cast, la Pantera Nera di Velluto riusciva sempre ad avere la sua presenza scenica, ma riusciva anche ad essere più leggiadra nelle scene d'azione, quasi danzasse sia quando sferrava un colpo, sia quando li riceveva.
Arrivati al numero 49 della serie però, le cose iniziavano un po' a scricchiolare: non solo la serie era oggettivamente complicata da seguire per un lettore occasionale, complice lo stilema narrativo bizzarro della sceneggiatura e tutte le varie ramificazioni di quest'ultima, ma le vendite si erano anche abbassate. La voglia di catturare chi non aveva tempo per studiare 35 anni di storie di un personaggio per capirne appieno la potenzialità erano però intatte.
E così, via T'challa dalla serie, ed ecco arrivare Kevin “Kasper” Cole, un poliziotto di New York che trova il costume cerimoniale della Pantera e decide di usarlo per i suoi fini personali.
Black Panther di Cristopher Priest: una vita nella giungla di cemento
Negli anni, moltissimi sceneggiatori avevano provato a ricatturare il genio nella bottiglia che era, è e sarà l'Uomo Ragno, cercando cioè di raccontare una storia di potere e responsabilità con un protagonista che saremmo potuti essere noi, Priest invece deciderà di proporci una parodia di quel concetto così poetico nella sua disarmante semplicità, mostrandoci un personaggio estremamente fallato, che mette di fronte a sé i suoi bisogni rispetto a quelli degli altri, nella speranza di trovare una vita migliore. La serie passerà così dall'essere un'analisi raffinata (seppur caotica e condita da superpoteri e viaggi nel tempo) del grande schema della gestione del mondo, ad un thriller urbano, condito da un pizzico di satira tutto sommato leggera. Nei 12 numeri in cui Kasper sarà la Pantera Nera, questo nuovo personaggio proverà a prendere forma, presentandoci la sua strana vita domestica, il suo passato, e sviluppando anche un rapporto con T'challa, che tornerà sulle scene rivelandoci però di essere rimasto colpito da una malattia che gli da poca aspettativa di vita.
Non si può negare, che gli ultimi 12 numeri di questo ciclo, sembrano decisamente fuori posto rispetto ai 50 che li hanno preceduti, e, sebbene il tono aulico e misterioso della prima parte del ciclo sia più affascinante, rendendolo veramente unico nel suo genere ed un esperimento quasi mai più riproposto nei fumetti, presa singolarmente, l'epopea di Kasper Cole ha comunque un certo fascino, una certa crudezza interessante che avrebbe forse trovato più successo rilanciata come nuova avventura del personaggio, piuttosto che come proseguo di un'epopea. Senza contare poi, che il tratto di Dan Fraga, esagerato, ipercinetico ma rozzo e rimasto fermo agli anni '90, mal si prestava ad un avventura cittadina realistica, dei primi anni 2000. Le stelle, non erano allineate per Kasper Cole, che proverà ad ottenere una seconda possibilità cambiando poi il suo costume da pantera con quello di un altro eroe Marvel a tema felino, La Tigre Bianca, ma senza particolare successo.
Black Panther di Cristopher Priest avrà, durante la sua pubblicazione, un seguito tutto sommato modesto, e il personaggio riuscirà ad ottenere il salto di fama solo anni dopo con il ciclo di Reginald Hudlin (che potete trovare qui), che si ispirerà così tanto al ciclo di Priest, da riportare in auge la serie, e finalmente porla dove sarebbe dovuta sempre stare: sullo scaffale dei fumetti seminali. In un mondo dove sugli scaffali i fumetti parlano di città, Black Panther parlava di mondo. In un mondo dove sugli scaffali i fumetti parlavano di emozione, Black Panther parlava di cultura. In un mondo dove sugli scaffali i fumetti parlavano di folle, Black Panther parlava di re.
E nelle immortali parole di Jay-Z, che cos'è una folla, se comparata ad un re? Parliamo di una serie che non solo ha sviluppato il potenziale di un personaggio trasformandolo in qualcosa di più di un semplice foglio di carta, rendendolo una vera e propria icona della cultura pop, parliamo di un fumetto che a livello tecnico presenta dei segnali di stile così forti, così personali, quasi irripetibili. In 62 albi, Priest ed il suo team di disegnatori, ci avevano dimostrato che non è sempre vero che devi scrivere quello che sai, devi scrivere quello che conosci. E solo chi ha seguito le impronte di un Re, di un poeta e di un rivoluzionario, sa quanto sono pesanti una corona, una penna, ed un idea. Ma è un peso che si porta volentieri, quando il risultato è un capolavoro lungo 62 numeri.