Quarta puntata della mia rubrica dopo la pausa estiva. Stavolta si parlerà di un artista che con una bibliografia corta ha estremamente influenzato i comics. Arthur Adams da Holyoke, Massachusetts. Ha ventidue anni quando, nel 1985, esordiscecon il suo primo lavoro “lungo” in Marvel, la miniserie Longshot scritta da Ann Nocenti; sembra lanciato verso una carriera da superstar grazie anche al suo enorme talento che negli anni influenzerà anche artisti come Joe Madureira, è richiesto da tutte le principali case editrici, ma dopo 35 anni di carriera il numero di tavole fatte è veramente esiguo principalmente perché ama la lentezza e altri dettagli che non hanno a che fare con il fumetto: ricordo un’intervista dove diceva che una volta si appassionò a un barbecue, regalo di sua moglie, e per mesi non fece altro che usarlo tutti i giorni.
Tutto questo è un problema? No, perché le sue pagine e la moltitudine di cover che ha realizzato hanno una qualità e una bellezza talmente sopraffine che bastano per dimenticare l’esiguità della sua produzione.
Ma andiamo per ordine cogliendo tre momenti della carriera di Adams.
Longshot, sfidare la fortuna
Partiamo dalla miniserie Longshot, il mutante col potere di sfidare le probabilità, ovvero l’essere artificiale più fortunato dell’universo. Sì, perché Longshot è stato creato nei laboratori del Mojoverso una dimensione dominata da Mojo, uno spregevole essere che crea spettacoli televisivi principalmente di lotta e li trasmette in tutte le dimensioni.
Legenda narra che Al Milgrom, ai tempi editor della Marvel, stesse lasciando il suo ufficio e pulendolo avesse trovato le tavole di prova del giovane Art; visto che nessuno voleva disegnare la miniserie Longshot decisero di farlo esordire, agli inchiostri Whilce Portacio - cioè il disegnatore più sfigato che io mi ricordi - e, come scritto poco sopra, ai testi Ann Nocenti che se lo chiedete al sottoscritto ha scritto una delle run più belle di Daredevil in coppia con John Romita Jr., ma che allora era poco più di un’esordiente e solo da qualche anno scriveva fumetti per la Marvel. Longshot fu quindi il suo primo vero banco di prova: venivano introdotti il protagonista, il Mojoverso in previsione di una serie futura che, però, non si sarebbe mai realizzata e Longshot fu in seguito inserito negli X-Men.
Il mutante fortunato fa dunque la sua comparsa nel team saldamente in mano a Chris Claremont nell’annual numero 10 e questo ci permette di osservare gli evidenti miglioramenti dei disegni di Adams (anche grazie agli inchiostri di Terry Austin) che sta affinando lo stile che lo contraddistinguerà negli anni: linee morbide, un’elevata dose di dettagli e un’evidente influenza di Michael Golden e Walt Simonson (ricordatevi questo nome). Comparate anche voi con questa tavola tratta da quel volume.
Il suo stile piacque parecchio ai lettori ma cominciava a delinearsi una costante tipica del lavoro del buon Art: era presente solo in qualche albo isolato di alcune testate sia Dc che Marvel; le eccezioni saranno due numeri X-Factor scritti da Louise Simonson e tre nel 1990 sulla testata Fantastic Four allora scritta da Walt Simonson, ossia il marito di Louise.
Adams è migliorato di nuovo, molto più sicuro (gli inchiostri sono di Art Thibert), le figure femminili si stanno differenziando regalandoci anche delle femme fatale notevolissime e si comincia a notare anche una delle passioni del disegnatore: i MOSTRI!
I mostri di Adams
È un trittico di storie dove Art si diverte parecchio e si nota che la chimica con Walt Simonson funziona, ma subito dopo ricominceranno le collaborazioni episodiche dove l’artista si avvicina anche alla Dark Horse. La casa, fondata da Mike Richardson, stava passando un momento di transizione dopo che, secondo chi scrive, aveva accusato la politica aggressiva dell’Image e il rimescolamento della situazione editoriale americana dei primi anni novanta; lì esperimenti come il Comics' Greatest World erano falliti abbastanza presto lasciando solo poche tracce (tra cui Ghost, principalmente ricordata per la versione del sommo Adam Hughes) e una sensazione di non riuscire a stare al passo con i tempi. Venne così lanciata Legend un’etichetta dove venivano pubblicate le opere (a volte ambientate nello stesso universo) di autori tra cui Frank Miller, John Byrne, Mike Mignola e appunto Art Adams e che durò quattro anni tra molti bassi - leggasi vendite - e pochi alti - la qualità dei fumetti - prima che Miller e Byrne decidessero di mollare: trovo esemplificativo quello che scrisse una volta Byrne.
'Legend era ispirato dalla Image, quando la Image era ancora sotto Malibu. " Che grande idea" pensammo "Facciamolo, solo facciamolo meglio". Per 'meglio', intendevano evitare l'annuncio di voumi che non sarebbero mai uscite, niente espedienti, solo fumetti. E avevamo alcuni dei migliori talenti che allora lavoravano nel firo, pronti a realizzare quei fumetti.
Contrariamente alle sciocche proteste di almeno uno dei più grandi contestatori della fan press, Legend non si riferiva a chi di noi aveva la aveva fondata. Quello che sarebbe stato Legends, con una S, e questo non era ciò che volevamo affermare di noi. Invece, essendo un anti-Image, cercavamo qualcosa che dicesse 'Eccovi le storie', e Legend è ciò che venne fuori (Per come ricordo la cosa, Frank Miller e io ce ne uscimmo con il nome in modo indipendente, ma quasi simultaneamente)
E poi la realtà entrò in gioco. Prima realizzamo che alcuni dei ragazzi, uno in particolare, non poteva produrre nemmeno il piccolo ammontare di lavoro che aveva promesso. Poi quelle che potrebbero essere educatamente chiamate 'altre considerazioni' iniziarono a emergere (" Facciamo un set di carte di Legend! E includiamo persone che si sono appena aggiunte ma che non hanno ancora un lavoro.. questo non sarebbe la stessa cosa che promuovere progetti che non esistono..."'
Non ha mai avuto peli sulla lingua, il vecchio John (chiedere a Jim Shooter) ma è difficile non pensare che la lentezza cronica di Adams non c’entrasse con quello scritto qui sopra.
Ma che cosa produsse Adams per la Legend? Monkeyman and O'Brien, dove Monkeyman è Axwell Tiberius, un gorilla superintelligente che è stato trasportato dalla sua dimensione al nostro mondo da uno dei macchinari dello scomparso Dottor Williams O’Brien, nientemeno che il padre di Ann, la O’Brien del titolo. È un fumetto che deve moltissimo ai Fantastici Quattro sia per atmosfere, mostri giganti, avventure nello spazio, declinati in maniera quasi pop, sia per i personaggi, non fosse che Tiberius è il Reed Richard dei gorilla.
Il disegno si è fatto ancora più sicuro con una moltitudine di dettagli ma senza perdere il piacere di disegnare vignette estremamente ariose; la trama è molto semplice, con molti omaggi al genere scifi e continui riferimenti ai fumetti degli anni sessanta tra cui Angel and the Ape dove si narravano le avventure dell’investigatrice privata Angel O'Day e del suo braccio destro Sam Simeon, un gorilla che si divide tra l’agenzia e il suo lavoro di fumettista (per questa chicca devo ringraziare pubblicamente Giovanni Campodonico).
Adams e le sue copertine
Di Monkeyman and O'Brien usciranno pochi numeri causa anche lo sfaldamento dell’etichetta Legend, e Adams ricomincerà a collaborare in maniera sporadica con con Marvel, Dc e Wildstorm senza mai fare più di due numeri; unica eccezione fu Ultimate X, una mini di cinque numeri uscita nel 2010 con le sceneggiature di Jeph Loeb, ma a mio parere non esattamente il progetto più riuscito del nostro disegnatore.
Discorso a parte va fatto invece per la sua carriera come copertinista dove creerà più di un centinaio di cover tra cui anche quelle per l’edizione statunitense di Nathan Never.
Il personaggio fantascientifico Bonelli fu pubblicato dalla Dark Horse così come Dylan Dog (cover di Mike Mignola) e Martyn Mystere, anzi Martin Mystery (cover di Dave Gibbons): come molti di voi sospetteranno il sottoscritto possiede questi volumi originali e ancora adesso si chiede cosa capirono i lettori americani di queste serie.
Rimane la curiosità nel pensare cosa sarebbe potuto diventare Arthur Adams se fosse stato più veloce, ma questo, così come per Travis Charest, non deve assolutamente oscurare l’altissima qualità del loro lavoro. Meglio poco che brutto (chi ha pensato a Greg Land ha tutta la mia stima).
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