American Horror Story: NYC, recensione: un'occasione persa

American Horror Story: NYC fa della discriminazione e della malattia lo sfondo per una crime story dalle buone premesse, ma che si disperde.

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a cura di Lucia Lasorsa

-Redattrice

American Horror Story: NYC, l'undicesima stagione della serie antologica creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk disponibile su Disney Plus, ci trasporta nella New York dei primissimi anni '80, con qualche breve incursione negli anni '70 e '90. In questo scenario si muovono i diversi protagonista di questa storia decisamente atipica almeno per i canoni a cui ci avevano abituato le stagioni precedenti di American Horror Story. Si tratta, infatti, di un thriller, con tanto di indagini e una caccia al serial killer, che però unisce diverse tematiche che si vanno pian piano a incastrare come i pezzi di un puzzle.

Tutto ruota intorno alla comunità omosessuale maschile della New York di quegli anni, fortemente discriminata anche dalle forze dell'ordine. A causa di questo atteggiamento, diviene molto facile, per chiunque usi la violenza contro gli uomini gay, farla franca. Anche quando si tratta di omicidi. Come se ciò non bastasse, una nuova, misteriosa malattia sta iniziando a contagiare dapprima i cervi, e poi gli esseri umani. La sua particolarità, però, è che colpisce solo gli uomini gay. In questo scenario opprimente e horrorifico si muovono i protagonisti principali di American Horror Story: NYC, Patrick Read (Russell Tovey), un detective omosessuale che tiene ben nascosto questo suo segreto, ché gli renderebbe la vita davvero difficile in centrale, e il suo compagno, il giornalista Gino Barelli (Joe Mantello). I due uniranno le forze per cercare di capire cosa stia succedendo in città: di che malattia si tratta? Come si trasmette? Perché sembra colpire solo gli uomini omosessuali? Chi è il serial killer di uomini gay? Perché uccide solo loro? Qual è il suo obiettivo? E chi è Big Daddy? Queste e molte altre domande trovano risposta in American Horror Story: NYC, ma la discontinuità del ritmo narrativo inficia pesantemente la serie.

American Horror Story: NYC - un'occasione persa

Dal punto di vista visivo, American Horror Story: NYC ricorda le vecchie serie televisive investigative e questo, insieme a un costante filtro che rende i colori più caldi di quanto siano in realtà, contribuisce a creare quel senso vintage che ben si sposa con una serie ambientata principalmente negli anni '80. Inoltre, le tematiche trattate sono di grande importanza, perché affrontano il tema della discriminazione sociale. Un dettaglio che colpisce è anche l'ulteriore discriminazione subita dalle donne gay, i cui problemi vengono costantemente snobbati dallo stesso Gino, che non ha intenzione di parlare dei loro problemi semplicemente perché non lo riguardano.

Per quanto riguarda la caratterizzazione del misterioso serial killer, sappiamo che adesca le sue vittime nei locali gay, le droga, le rapisce e le tortura, ma non per il puro gusto di farlo, anzi: ha un inquietante scopo in mente, ben preciso. Queste e altre sue caratteristiche lo accomunano a un serial killer realmente esistito, e a cui Ryan Murphy ha già dedicato una miniserie: Jeffrey Dahmer.

Del resto, anche Sam (Zachary Quinto) non è proprio uno stinco di santo: l'uomo ha infatti abitudini sessuali piuttosto violente e perverse, e potrebbe avere qualcosa a che fare con il serial killer. Sam è un commerciante e collezionista d'arte con diversi agganci con l'alta società newyorkese; naturalmente, Sam non esita a fruttare i suoi agganci e la sua posizione di potere per tenere nascosti i suoi vizietti. Del resto, ha molto più da nascondere di quanto non sembri, così come anche altri personaggi della serie.

Anche la nuova e misteriosa malattia che sta iniziando a colpire sempre più persone ha un ruolo molto importante in questa narrazione così improntata a vicende reali e non collegate all'esoterismo o allo spiritismo, come avviene nelle stagioni precedenti della serie. Tutte le scene più visionarie derivano, infatti, da allucinazioni e visioni dei protagonisti, sempre più provati da situazioni sempre più drammatiche.

Tutte queste tematiche, all'apparenza scollegate fra loro, sono invece unite da un filo conduttore le cui trame più intriganti vengono svelate già nei primi 5 episodi della serie. Ed è proprio questo il problema. Nonostante la scelta della tematica in sé colpisca positivamente perché audace rispetto alle stagioni precedenti, dal punto di vista narrativo si è scelto di sviluppare, fino a portarle a termine, le linee narrative più interessanti. Una volta scoperti i legami fra i personaggi e risolto il problema del serial killer, restano pochi spunti narrativi interessanti su cui improntare ben 3 episodi. Il risultato finale è quello di un livello di tensione sempre crescente fino al settimo episodio, che però cala brutalmente nelle puntate successive. L'impressione finale è, quindi, quella che le vicende si sarebbero potute distribuire diversamente all'interno degli episodi e che, forse, sarebbero bastati un paio di episodi in meno per snellire il tutto.

Conclusioni

Tutti gli attori menzionati sono gay nella vita reale, il che contribuisce a conferire ulteriore veridicità alle loro performance. La telecamera non sempre indugia sui dettagli più cruenti, ma trasmette sempre quell'opprimente senso di claustrofobia e un costante senso di smarrimento e tensione.

Tuttavia, la scelta di "allungare il brodo" negli ultimi episodi della serie fa calare notevolmente l'interesse e dà l'impressione che si stia guardando un riempitivo. Le rivelazioni ci sono anche nella seconda parte, ma si tratta di informazioni collaterali e decisamente meno importanti di quelle rivelate nei primi 6 episodi. Un vero peccato, visti tutti i punti di forza di American Horror Story: NYC, forte anche di un'aspra critica sociale, come ci avevano abituato gli autori già nelle stagioni precedenti

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