La nuova serie TV spin-off di Ryan Murphy e Brad Falchuk, American Horror Stories, si è conclusa: una mini-stagione stand alone che, se di primo acchito sembra essere una sorta di appendice antologica della serie principale, si discosta tuttavia da American Horror Story sotto diversi aspetti. Dopo aver avuto un assaggio dei primi episodi in anteprima, tiriamo le somme della serie horror completa trasmessa su Disney Plus a partire dall'8 settembre e scopriamo insieme com’è andata.
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Orrore tascabile
American Horror Stories è una mini-serie spin-off composta da 7 episodi, della durata di circa 45-48 minuti ciascuno: ogni puntata è a sé stante, ovvero mette in scena trame e personaggi differenti di volta in volta, se si eccettuano i primi 2 episodi intitolati Rubber (Wo)man, legati tra loro e all'ultima puntata, Game Over. Benchè Rubber (Wo)man riprenda la location, le tematiche e l’orrore ad esse sottostante che fanno parte della prima stagione di American Horror Story intitolata Murder House (come i fan della serie storica di certo sapranno), la rotta intrapresa da questa nuova serie firmata Murphy e Falchuk si dirige verso un percorso per certi versi differente, che la caratterizza come “tascabile”.
Non solo per il numero ridotto degli episodi, brevi stand alone antologici. American Horror Stories si presenta infatti come un prodotto di puro entertainment in perfetto stile USA, in cui un pizzico di horror qui, una manciata di attualità e intrigo là, offrono una serie in grado di intrattenere senza impegno. Al netto di soluzioni narrative piuttosto familiari, la serie TV di Ryan Murphy e Brad Falchuk attinge all’ “americanità” di tematiche tipiche del cinema d’oltreoceano proponendo un prodotto horror alla portata di tutti, in grado di intrattenere e colmare magari una serata tra amici.
Abbiamo così il trasloco in una vera murder house che nasconde un segreto fatto di latex e spiriti tormentati; un appuntamento al drive-in che si trasforma in una fuga da orde di simil-zombie; gli influencer irresponsabili che fanno arrabbiare il Babbo Natale sbagliato al centro commerciale; la coppia desiderosa di allargare la propria famiglia, anche con metodi di concepimento sovrannaturali; la scomparsa di un bambino in un’oscura e profonda foresta popolata da creature misteriose; e di nuovo la casa degli orrori protagonista della stagione Murder House e degli episodi Rubber (Wo)man, a chiudere il cerchio con i drammi degli spiriti che la infestano. American Horror Stories merita insomma il titolo che porta ed è perfetto per chi non intende sussultare troppo, ma non vuole nemmeno rinunciare a misteri e morti orribili e gratuite.
Ok, ma ne vale la pena?
La risposta a questa domanda non è semplice. American Horror Stories sembra tendere spesso verso l’espressione dei drammi umani, della meschinità degli individui, della loro solitudine e del loro malessere, punti d’origine del vero orrore latente dietro a uccisioni, evocazioni demoniache, violente perversioni. L’orrore americano si nasconde in realtà nel disagio delle persone, insomma. Obiettivo mancato, però, messo in secondo piano e spesso reso invisibile da una struttura che fa acqua (quasi) da tutte le parti. Buchi di trama senza una logica apparente; interpretazioni attoriali di medio livello, che vanno da un estremo sottotono a un overacting fuori luogo; sceneggiature spesso ridondanti e scontate; effetti speciali datati: sono questi i comuni denominatori di ogni episodio che tendono ad abbassarne la qualità.
American Horror Stories avrebbe potuto sfruttare il nome e il successo della serie principale per porsi come qualcosa di originale e magnificamente inquietante, ma l’impegno nel realizzare uno spin-off realmente degno di nota sembra non essere stato profuso a sufficienza. Non basta a salvare la serie da un voto medio nemmeno la divertente autoreferenzialità dell’ultimo episodio, Game Over, che vede ancora una volta il ritorno della celeberrima murder house e degli abitanti al suo interno, primo fra tutti Tate Langdon nella sua tuta in latex di cui Scarlet (Sierra McCormick) ha acquisito l’eredità diventando la nuova Rubber Woman. Questo episodio possiede infatti una sceneggiatura metanarrativa che pesca direttamente gli elementi di American Horror Story e riporta in scena vecchie conoscenze (spoiler: Ben Harmon), ne fa una sorta di autocritica e muove anche qualche riflessione verso il tema della paura e dell’orrorifico.
Intento ammirevole, che tuttavia nel minestrone di questa serie stand alone si perde: mancanza di mordente, una struttura che fa confusione con sè stessa, un cast che salvo alcune eccezioni avrebbe potuto dare di più. Sembra insomma che si tratti della versione più "soft" della serie originale, un prodotto probabilmente più adatto a un pubblico giovane o comunque poco incline a metterci particolare impegno nella visione: American Horror Stories è in tutto e per tutto uno spin-off, fruibile senza problemi anche da chi non ha mai visto un episodio di AHS, ma soprattutto da chi cerca una serie “mordi e fuggi” orientata più verso le “misteriose malefatte” degli uomini che sull’orrore vero e proprio.
Elementi iconici in American Horror Stories
Checché se ne dica, Ryan Murphy e Brad Falchuk sanno bene come inserire nell’equazione alcuni fattori in grado di rendere la loro serie iconica. Lo avevano già fatto con American Horror Story, non sono venuti meno con il loro progetto spin-off. La già citata, nuova e giovane Rubber Woman; la pellicola del film perduto in grado di diffondersi come un virus letale; il Babbo Natale sanguinario e senza pietà (interpretato da Danny Trejo, una certezza e una presenza gradita); ma soprattutto, il re dei cannibali, con la sua corona d’ossa che richiama visivamente la celebre corona di spine. Tutti elementi che a nostro parere potrebbero essere ripresi con successo all’interno di eventuali futuri episodi, ampliati e approfonditi con nuove storie e sviluppi inattesi.
Sembra, a questo proposito, che American Horror Stories sia stata rinnovata per una seconda stagione e che quindi, forse tali congetture potrebbero trovare fondamento: noi malgrado tutto ce lo auguriamo, dal momento che, al di là degli elementi “di disturbo” presenti, si tratta a nostro avviso di un prodotto dal grande potenziale. In chiusura, il plauso va infine a un elemento spesso poco considerato nelle serie TV, ma che già in American Horror Story è diventato un marchio di fabbrica: l’opening con i crediti iniziali, con immagini disturbanti e inquietanti diverse di volta in volta per ciascun episodio, ma con le stesse musiche utilizzate per l’intro della serie originale realizzate da Charlie Clouser e Cesar Davila-Irizarry. Un misto di musica e rumori che fanno accapponare la pelle e suscitano un forte senso di mistero e inquietudine.