Alieni dal sangue acido, eroine inossidabili e marine spaziali armati di tutto punto. Sono questi elementi i primi a cui si pensa quando viene fatto il nome di Alien, saga sci-fi che ha saputo ritagliarsi un posto d’onore all’interno della pop culture. Dalla prima apparizione del celebre xenomorfo in Alien, nel 1979, sino alle più recenti incarnazioni del mostro venuto dal cosmo creato da Ridley Scott, la serie dedicata allo scontro tra umanità e alieni è divenuta uno dei simboli della moderna fantascienza, cinematografica e non, capace di raccogliere l’eredità della precedente narrativa di genere e spingerla verso nuove direzioni, ibridandola con altri concept narrativi, come l’horror o i war movie.
Ripercorrere il mito di Alien è, già di per sé, un’avventura. Dal cinema ai romanzi, dai comics ai videogiochi, la creatura di Scott e O’Bannon si è conquistata famelicamente sempre più spazio, venendo curata da nomi altisonanti e arrivando ora a rivestire un ruolo di prima importanza anche su Disney+, piattaforma del colosso dell’entertainment, che dopo l’acquisizione di Fox non ha certo tardato a riproporre tutta la saga nel proprio catalogo. Ma prima di lanciarsi in una maratona streaming a base di xenomorfi e folli androidi, proviamo a ripercorrere la storia di questa complessa saga fantascientifica.
Alien: tutto quello che dovete sapere sulla saga cult
Da Dune a Alien: Dan O'Bannon e la ricerca della storia perfetta
Le origini di Alien si annidano, concettualmente, nella fantascienza anni ’50. Sia al cinema che in ambito letterario, l’impostazione classica voleva una ricerca dello stupore del lettore che si basasse su una descrizione orrorifica e violenta dell’alieno, il nemico per eccellenza. Che si trattasse di civiltà più progredite (Ultimatum alla Terra) o di minacce più ferine (L’invasione degli ultracorpi), l’alieno era principalmente l’antagonista, il villain. Una radicalizzazione della figura che ebbe un forte impatto anche sulla formazione di futuri autori, come Dan O’Bannon, cui va riconosciuto un importante contributo nella creazione dell’immaginario di Alien.
Da appassionato di fantascienza, O’Bannon sviluppò presto dei propri progetti, come l’acerbo ma promettente Darkstar. Film che lo portò a farsi notare da Alejandro Jodorowsky, che vide nella sua visione una parte essenziale del suo folle progetto volto alla prima trasposizione cinematografica di Dune, che non vide mai la luce, ma ebbe comunque il merito di mettere in contatto menti creative eccelse, da Moebius a H.R. Giger allo stesso O’Bannon. Da questo incontro di spiriti affini, O’Bannon ebbe modo di portare a casa una serie di contatti che sarebbero stati fondamentali nella creazione di quello che sarebbe divenuto Alien, ma che era nella seconda metà degli anni ’70 nella testa dello sceneggiatore era ancora Memory.
In Memory, un gruppo di astronauti interrompevano il loro viaggio perché intercettavano un misterioso segnale alieno proveniente da un pianeta sperduto, spingendoli a scendere sulla superficie alla ricerca di cosa avesse trasmesso il segnale. Alla base di questo concept, c’era la volontà di O’Bannon di creare un film che unisse atmosfere sci-fi alla grammatica della narrativa horror, sensazione acuita durante l’esperienza parigina per Dune, dove O’Bannon era rimasto colpito dalla commistione tecno-organico dell’arte dello svizzero Hans Rudi Geiger:
“I suoi dipinti ebbero un forte impatto su di me, non avevo mai visto nulla di così orrende e al contempo affascinante come i suoi lavori. E alla fine mi ritrovai a scrivere uno script su un mostro di Giger”
Da questa influenza, O’Bannon rimise mano alla sceneggiatura di Memory, aiutato dall’amico Ronald Shusset, che lo convinse a ripescare un’altra vecchia idea: dei gremlins che si infiltravano a bordo di un bombardiere americano durante la Seconda Guerra Mondiale.
Con questo consiglio, Memory si arricchiva di un altro aspetto poi centrale nella futura saga, e al contempo cambiava nome in Star Beast, nome che non convince del tutto O’Bannon che decide infine di passare a un più perentorio Alien. E trovato il nome, all’improvviso allo sceneggiatore venne in mente anche il come motivare la presenza aliena a bordo di una nave umana, come raccontò Shusset:
“Dan puntualizzò il problema: dovevamo trovare un modo in cui portare l’alieno sull’astronave in modo nuovo. Non avevo di come farlo, ero convinto che se avessimo trovato come farlo intrufolare a bordo, avremmo trovato la quadra del film. Nel pieno della notte, mi svegliai e dissi ‘Dan, credo di avere auto un’idea: l’alieno si avvinghia a uno dell’equipaggio, gli salta sulla faccia e lo insemina’. E Dan mi disse ‘Dio, ce lo abbiamo, abbiamo l’intero film!’”
Una genesi che sembra frutto di ispirazioni personali, ma che negli anni è stata accusata spesso da autori di fantascienza letteraria di essere figlia di plagi e volgari scopiazzature. Accuse a cui O’Bannon ha sempre risposto sostenendo che in Alien sono presenti mai negate ispirazioni a concept narrativi tipici della narrativa di genere, ma che sono state comunque riutilizzate all’interno del processo creativo in modo personale. La genialità di O’Bannon fu comunque premiata, considerato che quando propose il suo script a 20th Century Fox, questa non si fece sfuggire l’occasione, volendo cavalcare l’improvvisa passione per la fantascienza al cinema generata da un’altra pellicola che sul finire degli anni ’70 stava riscrivendo i canoni della sci-fi sul grande schermo: Star Wars.
Creare il mostro: H.R. Giger e lo xenomorfo
Le idee di O’Bannon erano proiettate verso una visione cinematografica inusuale per la fantascienza del periodo, al punto da richiedere un nuovo canone visivo. Considerata che parte fondamentale della creazione di O’Bannon era l’arte dello svizzero Giger, quest’ultimo fu subito coinvolto da O’Bannon per dare vita al suo mondo, soprattutto per realizzare il villain: l’alieno.
La gensi dello xenomorfo fu complessa per Giger f, ma il risultato finale fu una scultura in plastilina in cui erano inserite vertebre di serpente e pezzi meccanici presi da una vecchia Rolls-Royce. La testa fu realizzata dall’italiano Carlo Rambaldi, apprezzato per il suo lavoro in Incontri ravvicinati del terzo tipo e che una manciata di anni dopo avrebbe creato E.T. Rambaldi lavorò cercando di mantenere inalterata l’impostazione di Giger, inserendo all’interno della testa dell’alieno una serie di meccanismi e parti mobili che ne rendessero possibili movenze credibili e ferine.
L’idea del sangue alieno venne invece a Ron Cobb, che era stato assunto per disegnare la componente umana del mondo di Alien, dalla Nostromo alle attrezzature dell’equipaggio. Dan O’Bannon stava cercando un modo per non rendere invulnerabile l’alieno in maniera già vista e di renderlo comunque letale per l’equipaggio
“Ero fermo al punto in cui portavano l’alieno a bordo, volevo evitare il classico clichè dei proiettili che gli rimbalzavano addosso, del mostro indistruttibile, volevo che la creatura fosse in ogni aspetto un vero animale, quindi se gli spari deve morire. Il problema era, nella seconda parte del film, come mai non gli sparassero, non lo schiacciassero, o lo pugnalassero, e siccome non trovavo una soluzione, mi rivolsi a Cobb per un’idea”
Le esigenze narrative della sceneggiatura spinsero Cobb a dare vita ad ambienti claustrofobici che fossero però adatti a esprimere l’aspetto ferino della creatura aliena, predatore degli umani che sono, a tutti gli effetti, prigionieri sulla nave con questo essere inarrestabile. Mancava solo una spiegazione al fatto che l’equipaggio umano non potesse usare armi convenzionali, in modo da rendere il tutto ancora più disperato:
“Che ne dici se avesse il sangue acido? E potesse corrodere il metallo?”
Questa intuizione di Cobb diede a O’Bannon la risposta ai suoi problemi. Venne deciso che gli xenomorfi avessero il sangue acido, in modo tale che non potesse essere ucciso in modo canonico, ma si costrinse l’equipaggio a trovare nuovi modi per eliminarlo senza rimanere feriti o compromettere la sicurezza della nave. A completare la genesi del mostro fu Ridley Scott, regista del film e padre della saga, che portò sul set un giovane artista di strada, Boalji Badejo. Il ragazzo era alto più di due metri e aveva braccia particolarmente lunghe, che lo rendevano ideale per muovere il costume dell’alieno. Scott fece prendere a Badejo lezioni di Tai Chi, per imparare a minimizzare i movimenti e calarlo ancora di più nella parte dell’Alien.
L'universo di Alien: La saga di Ellen Ripley
Non solo lo xenomorfo è essenziale nell’avere reso Alien una saga cult. Al centro della prima vita della serie, il volto con cui gli spettatori empatizzano è quello algido di Ellen Ripley, interpretata da Sigourney Weaver. Pur avendo inizialmente pensato a un protagonista maschile, Ridley Scott decise di fondare parte dell’aspetto horror della saga su uno dei moderni tratti del genere, la Final Girl, la sopravvissuta. Negli horror si assiste spesso alle traversie di una figura femminile che dopo avere subito la situazione, alla fine trova il coraggio di reagire e ribaltare le aspettative. Scott riscrive questa concezione, mostrandoci una donna, Ellen Ripley, capace di essere salda ed energica sin dall’inizio, sicura anche nel mostrarsi contraria alle idee dei colleghi, senza patirne il confronto.
Per questo ruolo serviva un’attrice di valore. Inizialmente la parte era stata affidata a Meryl Streep, ma l’attrice dovette rinunciare alla morte del compagno, John Cazale. Nonostante per la parte si fosse presentata anche Veronica Cartwright, la scelta ricadde su una collega più giovane, Sigourney Weaver, che pur non avendo la stessa esperienza mostrava buone capacità.
A ben vedere, la prima parte della lunga saga di Alien è a tutti gli effetti la storia di Ellen Ripley. Nel primo capitolo, considerata la sua natura da horror claustrofobico, Ellen rientra nella categoria della final girl, personaggio che sarebbe potuto essere completamente espresso all’interno di un film di stand alone. A dare maggior vitalità a questo personaggio fu l’incredibile successo di Alien, che spinse la 20th Century Fox a dare vita a un seguito, che venne affidato a un altro regista entrato nell’Olimpo del cinema: James Cameron, nome celebrato per cult come Avatar, Titanic e Terminator.
Con il suo Aliens: Scontro Finale, Cameron ha radicalmente cambiato l’approccio narrativo della saga, scardinando quella che era la natura dell’impostazione di Scott.
Nel primo capitolo della saga, per quanto O’Bannon avesse immaginato un mondo ricco di dettagli, Scott si era giustamente focalizzato sulla bestia aliena e la sua sfida agli umani, attirando l’attenzione degli spettatori principalmente su un piano emotivo, lasciando il mondo in cui si muovevano i protagonisti accennato e poco definito. Una scelta comprensibile, che aveva lasciato inutilizzato una quantità incredibile di materiale dedicato alla definizione della specie aliena, che sarebbe tornato utile anni dopo, quando Scott avrebbe ripreso in mano la sua creatura con i capitoli prequel. Questa nebulosa definizione dell’umanità futura fu una fortuna per Cameron, che aveva così la possibilità di non realizzare un semplice sequel, curando maggiormente i protagonisti, ma anche di realizzare un’opera di accurato world building che sarebbe divenuto centrale nello sviluppo crossmediale della saga.
Il taglio innovativo dato da Cameron ad Aliens – Scontro Finale si percepisce nel modo in cui sono i personaggi, che vengono maggiormente definiti e resi centrali nella storia. Non a caso, gran parte del primo atto del film è dedicato all’approfondimento di Ripley e al suo ritorno all’interno della società umana, dopo un lungo sonno criogenico. L’intero film, in un certo, è una sorta di rinascita per Ripley, costretta a reinventarsi una vita dopo un’esperienza traumatica che la ha privata della sua vita e del suo essere madre, come si può vedere dalla versione estesa di Aliens in cui viene approfondita la morte della figlia Amanda. E la maternità di Ripley, violata e infine risorta nel rapporto con Newt è uno dei punti forti del film di Cameron.
Non si può negare che per gran parte dei fan, Aliens – Scontro finale sia stato il capitolo cinematografico più appassionante, soprattutto in termini di definizione dell’ambientazione. ien e Aliens- Scontro Finale sono due film che affrontano la fantascienza in modo differente, mettendoli in condizione di non dover essere protagonisti di un confronto su quale sia meglio. Tolto il gusto personale dello spettatore, i film di Cameron e Scott sono due narrazioni diverse, basate su differenti approcci e ugualmente validi e profondi. Se a Scott va tributato il giusto merito di avere inaugurato la saga degli xenomorfi, a Cameron si deve riconoscere la forza di aver voluto osare, stravolgendo le regole del primo film e aver voluto creare un mondo più dettagliato e vitale, capace di trasportare l’orrore degli spazi claustrofobici della Nostromo in un action movie fantascientifico.
Esperimento che non riuscì a David Fincher, incaricato di proseguire la trama della saga con il suo ALIEN³. Film sfortunato, considerato che dopo le lunghe traversie legate a una produzione traballante e una sceneggiatura rimaneggiata da più autori, tra cui William Gibson, a Fincher venne affidato un progetto destinato al fallimento, nonostante alcune felici intuizioni del regista. Fincher fu costretto a lavorare su una sceneggiatura che era sostanzialmente un puzzle di tutte le precedenti proposte, rendendo complicato al regista trovare un punto fermo su cui sviluppare il carattere della pellicola. Il risultato di ALIEN³ di Fincher, alla fine, non parve convincere i fan, che per anni considerarono questo capitolo il peggiore della saga. In realtà, Fincher ha colto una pesante eredità da Cameron, osando per dare agli xenomorfi una diversa connotazione, in un certo senso più vicino alle atmosfere originali di Scott. ALIEN³, infatti, ha un’atmosfera horror che riporta anche Ripley al suo ruolo di tipica ‘ragazza in pericolo’ dei film horror, ruolo che aveva rivestito nel primo film cambiando radicalmente il ruolo della final girl. Fincher, invece, prende Ripley e la rende nuovamente umana e le toglie l’aura da donna guerriera, specialmente nel finale in cui il suo sacrificio racchiude una forte umanità e un accenno di istinto materno. Soprattutto, Fincher spinge l’orrore verso un approccio più materiale e cruento di quanto visto in precedenza nella saga.
A chiudere la saga di Ellen Ripley, almeno sino a oggi, è stato Alien – La Clonazione, film in cui si cerca di ripotare in vita l’eroina all’interno di un film ambientato secoli dopo il finale del precedente, con una trama che manca totalmente di cogliere le ispirazioni dei precedenti capitoli, limitandosi a creare un’avventura in cui i personaggi si muovono in una sorta di malriuscita sintesi di quanto visto in precedenza.
Capitolo a parte i due episodi di Alien Vs Predator, che volendo presentare una sorta di racconto delle origini, con riferimenti a elementi cardine della saga, cercando di creare uno stretto legame tra gli xenomorfi e gli Yauta, i cacciatori alieni resi celebri dalla saga di Predator e che, con un easter egg nel finale di Predator 2, sembravano avere una relazione stretta con gli alieni del sangue acido. Scelta dettata da motivi commerciali che poco diedero in termini di spessore narrativo, tanto che vennero disconosciuti da Scott quando si trattò di tornare al timone della saga.
Le origini: i film prequel
A partire da Alien la presenza dei letali alieni viene data come assiomatica, esistono e non dobbiamo farci domande sulle loro origini. In realtà, Scott aveva inizialmente concepito una narrazione più articolata che affrontava anche questo tema, tanto che con i suoi due più stretti collaboratori dell’epoca, H.R. Giger e Dan O’Bannon aveva dato vita a una serie di diramazioni narrativa che spiegavano anche l’origine di un’altra figura divenuta leggenda nella continuity di Alien: lo space jokey. Il misterioso alieno trovato all’interno del vascello extraterrestre in Alien.
Gran parte del fascino degli xenomorfi era legato, infatti, alla loro aura di insondabile mistero, una ferocia ferina scaturita dalle profondità dello spazio e che li aveva resi al contempo temibili avversari e ambito oggetto di studio, specie da parte della Weyland-Yutani. Privare gli xenomorfi di questa loro peculiarità per raccontarne le origini era un azzardo, ma va anche riconosciuto al regista che si trovava ora a gestire la propria creazione dopo decenni di sequel più o meno azzeccati, improbabili team up (come Alien Vs Predator) e una trattazione multimediale del proprio alieno decisamente prolifica. Era quindi ora di portare un po’ di ordine all’interno della saga, e non poteva esserci, a parere di Scott, miglior modo che tornare alle origini, tenendo sempre presente una rotta precisa:
“Alien è l’ovvio punto di partenza di questo universo, ma dal processo creativo è nata una mitologia immane e nuova, un universo in cui si svolge questa avventura mai raccontata. Gli appassionati troveranno filamenti del DNA di Alien, ma le tematiche che affronteremo in questo film sono specifiche, importanti e divisive. Non potrei esser più soddisfatto nell’avere identificato il racconto che cercavo, potendo tornare infine a un genere che sento particolarmente caro”
Da questa sua visione, Scott decise di raccontare in modo differente il mito di Alien, liberandosi dai legami con gli altri capitoli della saga, concentrandosi su una definizione più metafisica del suo universo narrativo, affidandosi a una serie di riferimenti che toccavano argomenti di spessore, come il rapporto col divino e la ricerca delle risposte alle grandi domande dell’umana condizione. Una ricchezza di contenuti che consentì a Scott di introdurre nuovi elementi nella cosmogonia di Alien, come gli Ingegneri.
Il concetto di fede è centrale in Prometheus, non solo per le ovvie citazioni e rimandi, ma anche per la conclusione stessa della storia, che vede i grandi interrogativi rimasti ancora senza risposta. Non è un caso che l’unico personaggio con un evidente legame religioso, Shaw, sia la sola sopravvissuta, capace di accettare l’origine scientifica dell’umanità, sentendosi quasi sollevata, ma ancora in grado di credere in un’entità superiore. La sua partenza nel finale di Prometheus per proseguire questa ricerca della verità primigenia è al contempo un monumento alla curiosità umana, base della scienza, e un’affermazione di fede, in un raro esempio di coesistenza di due elementi così antitetici.
Una missione animata dalla ricerca di risposte ai grandi interrogativi dell’esistenza, legati alle nostre origini. Prometheus fonda la propria dinamica sul concetto di creazione, sin dalle prime immagini, con il sacrificio dell’Ingegnere per la creazione della razza umana, proseguendo nel corso del film con un ciclo di forzata procreazione che, in una chiusura del cerchio, ci riporta agli Ingegneri stessi, dopo una serie di fecondazioni aliene che ha coinvolto sia la razza umana che quella dei loro creatori, un meccanismo messo in moto, ironicamente, dall’unica forma di vita non biologica: l’androide David. Il personaggio interpretato da Fassbender incarna nuovamente l’elemento tecnologico di rottura all’interno delle trame della saga di Alien.
Ash aveva un malfunzionamento durante la sua routine segreta per recuperare le uove aliene, Bishop aveva mostrato una morbosa curiosità durante la sua autopsia ai facehugger in Aliens – Scontro Finale, mostrando come i sintetici siano sempre inquietantemente legati al concetto di vita, intesa come nascita e prosecuzione della specie. Difficile non notare come questo cruccio interiore dei sintetici ricordi la disperata ricerca di ‘più vita’ di Roy Batty e sodali in Blade Runner, anche se in Prometheus viene affrontata in modo diverso. Se in Blade Runner lo struggimento dei sintetici era per la loro consapevolezza di una morte imminente, unita alla conoscenza delle proprie origini e alla sua accettazione, per David in Prometheus questa curiosità si spinge nella direzione del perché esistere, in una visione che pare rifuggere l’assioma cartesiano.
Con un atto deciso, Scott recupera anche parte del materiale non utilizzato ai tempi del primo Alien, specie in riferimento a quella che all’epoca era la presunta cultura aliena. I lavori di O’Bannon e H.R. Giger sono stati riadattati per creare l’estetica della società degli Ingegneri, in un’opera di riciclo che partendo dal rifiutato concetp di Giger per il Castello Harkonnen del Dune di Jodorowsky arriva infine a trovare parziale utilizzo nella costruzione delle installazioni degli Ingegneri. Tutti questi dettagli concorrono a conferire a Prometheus una propria identità, una crasi tra la ricerca di risposte agli interrogativi emersi nella pellicola inaugurale della saga e la necessità di avviare nuove trame. Una ricerca di personalità che si estese anche alla definizione visiva, alla tecnologia dell’umanità futura, che non trovava solamente in David una degna raffigurazione.
Il film, nonostante interessanti premesse e un’evidente volontà di portare ordine nella saga, si scontrò con parte del fandom, che criticarono questa operazione. Prometheus, come l’omonimo protagonista del mito greco, porta all’interno della saga una nuova scintilla, la conoscenza, sia come nozione posseduta che come ricerca della stessa, dando uno slancio differente alla saga. Il film di Scott risente della sindrome da primo capitolo, il creare un mondo approfondito in seguito, aggravato dalla presunta familiarità dei fan con questa ambientazione. Un senso di nostalgico affetto deluso dalle radicali trasformazioni del mondo ritratto da Scott, che non ha nascosto la sua volontà di gettare le basi della cronologia della sua saga, dando vita a un proprio universo.
A condannare definitivamente il desiderio di Scott è il secondo capitolo prequel, Alien: Covenant. Sul piano concettuale, Alien: Covenant mostra di voler proseguire il viaggio cosmico alla ricerca della conoscenza intrapreso da ElizabethShaw nel precedente capitolo, ma rapidamente ci troviamo davanti a un repentino cambio di punto di vista. Dal precedente capitolo, sembra che i concetti fondanti, ossia il rapporto con la fede e la ricerca di risponde fondamentali, siano stati accantonati, blandamente diluiti all’interno di una narrazione che si focalizza maggiormente sulla creazione di un’aderenza alla continuity della saga, appellandosi a un altro tema caro a Scott: l’intelligenza artificiale.
Il citato cambio di prospettiva e l’abbandono dell’intelaiatura filosofica di Prometheus sono divenuti i punti critici di Alien: Covenant. A penalizzare questo secondo capitolo non è stato il piano tecnico, impeccabile sia nella resa delle scene d’azione che nel design, ma nelle scelte narrative, che proprio nei punti di maggior pathos della pellicola sembrano peccare di una fastidiosa ingenuità. Quasi che Scott abbia integrato nella matrice narrativa della sua saga una componente tipica di alcune variazioni dell’horror cinematografico, ossia la tendenza di alcuni personaggi a compiere azioni apertamente incaute e incomprensibili, ma funzionali al proseguimento della storia. Se in uno slasher questi passaggi sono parte integrante della grammatica narrativa, in una storia come Alien: Covenant questi momenti sono segno di una mancanza di percezione del pathos della trama.
Perdita di focus che ha portato a una pessima accoglienza dei fan, in conseguenza della quale si sono bruscamente fermati i lavori di quello che avrebbe dovuto essere il terzo e definitivo prequel, lasciando quindi la saga orfana di un anello di congiunzione con il corpus narrativo principale.
Aliens Universe: dal cinema al fumetto
A comprendere le potenzialità di Aliens nel mondo dei fumetti fu la Dark Horse Comics. Negli anni ’80-’90, Dark Horse fu una pioniera del concetto di universo espanso, dando vita a diverse linee di pubblicazioni dedicate ad alcuni dei grandi successi cinematografici, da Star Wars a Robocop, da Terminator a Predator. Una casa editrice così aperta a questo genere di pubblicazioni non poteva lasciarsi sfuggire un personaggio carismatico come lo xenomorfo e fu proprio grazie a questa vocazione di Dark Horse che si avviò l’Aliens Universe. La casa editrice identificò in Mark Verheiden l’autore perfetto per dare vita a un seguito di Aliens – Scontro finale, come svelò lo stesso Verheiden:
“Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di avere ricevuto poche direttive. Una era ‘ vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra’. Due ‘nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks’. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley(divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War). Era un peccato, ma a caval donato non si guarda in bocca, no?”
Una nuova dimensione della saga, quella fumettistica, in cui gli appassionati potevano finalmente scoprire alcuni dettagli mai chiariti nei film. Una continuity apparentemente condivisa che vide la propria fine nel 1992, quando con l’uscita di ALIEN³ e la morte di Newt e Hicks nelle prime scene del film, ogni possibile attinenza tra fumetto e saga cinematografica venne completamente cassata.
Motivo per cui il contesto fumettistico viene chiamato Aliens Universe, proprio per ribadire come sia uno spin off del film di Cameron, ma vada visto come un gigantesco racconto alternativo non canonico. Con buon pace di Verheiden, che fu costretto ad accettare le scelte di Fincher prese per il terzo film della saga:
“Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien³ e, a essere sincero, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato uno schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella television, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare ‘l’attesa dell’inatteso’. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien³, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale”
Dopo anni di fumetti non canonici, con il ritorno di Scott al timone della saga si è voluto cercare di dare maggior linearità anche nella dimensione fumettistica. La Dark Horse Comics, detentrice all’epoca dei diriti degli xenomorfi per il mondo dei comics, decise di dare vita a due saghe, Fire and Stone e Life and Death, che rendessero più coese le trame dei film, cercando anche di creare una sorta di canonizzazione della complessa relazione tra xenomorfi e Yautja.
Il futuro di Alien
Sotto ogni aspetto, Alien è ora un gigantesco potenziale inespresso. Scott non è riuscito a terminare la sua saga prequel, progetto ufficialmente non cancellato ma di cui non si hanno notizie da troppo tempo per non avere il sentore che ci si trovi davanti a una narrazione bruscamente arrestata. Nonostante la cancellazione del famigerato Alien 5 di Blomkamp, sacrificato proprio per dare maggior risalto ad Alien: Covenant, il lavoro di Scott con gli xenomorfi pare ora essersi arrestato. Tuttavia, con l’acquisizione di Fox da parte di Disney, non sono certo mancati i progetti che intendono dare nuova linfa al franchise. Dall’annunciata serie affidata a Noah Hawley a un film direct-to-stream destinato agli utenti di Hulu, il mondo degli xenomorfi sembra tutt’altro che defunto, ma è evidente, considerate le ultime esperienze, che sia necessaria imprimere una nuova guida, più coesa e lineare, per dare vita a una continuity omogenea.
Disney ha dimostrato con altri grandi franchise, come Star Wars e il Marvel Cinematic Universe, di essere pienamente in grado di potere raggiungere questo scopo. A questo va aggiunto il passaggio dei diritti dei comics di Alien a Marvel, altro brand della galassia disneyana, che potrebbe quindi concorrere alla creazione di una nuova vita crossmediale per Alien, sull’esempio di Star Wars. Il primo passo di questa rivalutazione del mito di Alien è stato l’inserire l’intero ciclo su Disney+, dove dovrebbero approdare anche i futuri progetti legati alla letale creatura dello spazio.