L'Italia apre un nuovo fronte nella battaglia fiscale contro i colossi del tech, richiedendo oltre un miliardo di euro per presunta evasione dell'IVA. La Guardia di Finanza ha concluso un'indagine che coinvolge non solo Meta e X, come emerso inizialmente, ma anche LinkedIn, sostenendo che lo scambio di dati personali per l'accesso ai servizi costituisca una transazione soggetta a imposizione fiscale. Questa interpretazione, se confermata, potrebbe rivoluzionare il modello economico dell'intero ecosistema digitale, estendendosi ben oltre i confini italiani fino a influenzare la normativa fiscale in tutta l'Unione Europea.
Al centro dell'indagine vi è un concetto giuridico che affonda le sue radici nel diritto greco antico: la relazione "sinallagmatica". Secondo questa interpretazione, quando un utente acconsente all'utilizzo dei propri dati personali in cambio dell'accesso gratuito a un social network, si configura di fatto un contratto commerciale. Il dato diventa quindi una merce, un controvalore alternativo al denaro che genera profitti attraverso la pubblicità mirata.
Questa posizione, adottata dalle autorità fiscali italiane, rappresenta un cambio di paradigma: i dati personali vengono equiparati a una forma di pagamento che, come tale, dovrebbe essere soggetta a imposta sul valore aggiunto. Una tesi potenzialmente dirompente che potrebbe costringere a ripensare l'intero modello di business non solo dei social media, ma di tutte le piattaforme digitali che offrono servizi "gratuiti" in cambio di dati.
La notifica dell'accertamento fiscale riguarda per ora solo gli anni 2015 e 2016, quelli prossimi alla prescrizione, ma potrebbe rappresentare solo l'inizio di una più ampia strategia di revisione fiscale.
Le cifre richieste sono considerevoli: 887,6 milioni di euro a Meta, 140 milioni a LinkedIn e 12,5 milioni a X (ex Twitter), per un totale che supera il miliardo. Sebbene questi importi possano sembrare relativamente modesti per aziende di tali dimensioni, le implicazioni sistemiche della questione sono enormi.
Meta ha già risposto attraverso un portavoce, dichiarando di aver "collaborato pienamente con le autorità" pur esprimendo un forte disaccordo "con l'idea che l'accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell'IVA". L'azienda di Zuckerberg, come prevedibile, sostiene di rispettare tutti gli obblighi fiscali nei Paesi in cui opera.
Un effetto domino oltre i social network
Le ripercussioni di questa interpretazione potrebbero estendersi ben oltre i tre colossi attualmente sotto indagine. Se il principio venisse confermato, praticamente qualsiasi servizio online che raccolga dati in cambio di accesso gratuito potrebbe essere soggetto a revisione fiscale: dalle compagnie aeree agli e-commerce, dai supermercati digitali agli editori online.
La questione assume inoltre una dimensione europea, poiché l'IVA è una tassa armonizzata nell'Unione. Una decisione italiana potrebbe quindi innescare un effetto domino, spingendo altri Paesi membri ad adottare interpretazioni simili e portando eventualmente a una ridefinizione normativa a livello comunitario.
Gli esperti del settore osservano con attenzione: se questa interpretazione dovesse prevalere, l'intero ecosistema digitale potrebbe essere costretto a una radicale trasformazione. Le aziende dovrebbero riconsiderare il valore fiscale dei dati raccolti e, potenzialmente, modificare i propri modelli di monetizzazione.