Lo Smart Working e i capi medievali, parte 2

Dopo l’articolo sui “capi medievali”, rispondiamo alle critiche ricevute: produttività, fiducia, obiettivi, benessere e leadership. Lo smart working funziona, ma va capito, non sabotato.

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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Quando abbiamo pubblicato l’articolo Il lavoro da remoto funziona. Il problema sono certi capi medievali i commenti non si sono fatti attendere: molti lettori erano d’accordo, ma anche le critiche non sono mancate. E molti hanno condiviso esperienze personali e frustrazioni. L’articolo è stato ripreso anche da diverse persone su Linkedin (per esempio quiquiqui e qui

Il dibattito che ne è scaturito ha messo in luce questioni reali: dalla produttività al ruolo del management, dalla differenza tra lavorare da remoto e fare davvero smart working, fino al senso di appartenenza e ai rischi di isolamento. In mezzo, tanti equivoci; non tutti in malafede, ma spesso alimentati da semplificazioni o da esperienze mal gestite nel periodo emergenziale della pandemia.

Torniamo quindi sul tema cercando di isolare i grandi temi emersi in questo dibattito, e tentando poi di chiarire almeno gli equivoci più evidenti. Troverete anche alcuni dati di approfondimento, dove ci è sembrato utile aggiungerli. 

Prima di iniziare, è importante affermare che non è una questione ideologica: si tratta di cercare un equilibrio tra pro e contro sia per l’azienda sia per il lavoratore. I principi fondanti sono autonomia, fiducia, responsabilità e benessere sul lavoro. 

Nel lavorare insieme si fallisce se non c’è soddisfazione in tutte le persone coinvolte. Una visione che, se applicata con metodo e buon senso, può funzionare meglio dei modelli basati sul controllo e sulla presenza forzata.

Forse è ovvio, ma è importante sottolineare che parliamo di quei lavori dove questa visione è possibile; e quindi sono escluse tutte quelle attività da fare in presenza. Manifattura, ristorazione, vendita al dettaglio e ospitalità, sanità... sono moltissime le situazioni in cui per fare un lavoro bisogna andare sul posto. E sono tutte situazioni escluse da questo discorso. 

La produttività aumenta o scende? 

Se c’è un tema che ha polarizzato i commenti al primo articolo, è quello della produttività. Molti lettori hanno espresso dubbi o critiche: “ma davvero si lavora meglio da casa?”, “non sarà solo una scusa per fare meno?”. La domanda è legittima, e la risposta va cercata nei dati; sembrerebbe che manchi ancora una risposta definitiva, ma i dettagli sono importanti. 

Non è una questione ideologica: si tratta di un equilibrio tra pro e contro sia per l’azienda sia per il lavoratore

Il dibattito sulla produttività legata allo smart working è tutt’altro che chiuso. Prima di tutto è bene osservare che in quasi nessun caso lo smart working è applicato tutti i giorni della settimana, ipotesi che tra l’altro andrebbe anche a cozzare con la legge in vigore. 

Va infatti precisato che, nella realtà italiana, il lavoro agile si applica nella maggior parte dei casi con modalità ibride: mediamente si lavora da casa uno o due giorni a settimana, mentre il resto del tempo si passa in sede. Secondo i dati raccolti dal Politecnico di Milano e da altre fonti, le grandi imprese offrono circa 9 giorni al mese di lavoro da remoto, la Pubblica Amministrazione circa 7 giorni, e le PMI circa 6,6 giorni. Dunque la maggioranza dei lavoratori continua a vivere il lavoro d’ufficio per almeno metà del tempo. Questo dato è fondamentale per contestualizzare il dibattito.

Alla luce di questo, analizziamo le ricerche condotte tra il 2021 e il 2025. Queste restituiscono un quadro articolato, con risultati a volte divergenti. Alcune evidenze indicano un miglioramento delle performance, altre segnalano difficoltà o assenza di effetti rilevanti. Quello che appare sempre più chiaro, però, è che la produttività non dipende in modo diretto dal luogo in cui si lavora, ma da come il lavoro è organizzato, gestito e supportato.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, già nel 2021 il 59% delle grandi imprese e il 30% delle pubbliche amministrazioni segnalavano un aumento dell’efficacia e dell’efficienza legate al lavoro agile, mentre solo una minoranza (5% e 16%) riportava un peggioramento. Un’indagine ISTAT dello stesso anno confermava percezioni positive, soprattutto in ambiti come l’industria e il commercio. Alcune revisioni sistematiche sottolineano inoltre come la riduzione delle interruzioni in ufficio possa aumentare la produttività in contesti individuali e concentrati. Altre definiscono la situazione come “migliorabile”.

I dati disponibili indicano una grande varietà di situazioni, sia in Italia sia altrove. L’analisi per dimensione aziendale, in particolare, mostra che le grandi imprese applicano più spesso lo smart working, con un aumento costante anche di recente. Le PMI invece fanno controcorrente, con un calo dei lavoratori  "in smart" e meno giorni al mese. 

La diffusione resta frammentaria e spesso informale: il lavoro agile è ancora percepito come una concessione temporanea, più che un vero modello organizzativo. Solo il 46% delle PMI lo considera sicuro sotto il profilo dei dati, e la perdita di senso di appartenenza è un timore ricorrente.

Nella Pubblica Amministrazione, il numero di lavoratori agili è stabile (circa 500mila nel 2024), ma la maturità nell’implementazione è limitata. Anche le microimprese, con circa 625mila smart worker nel 2024, mostrano una certa tenuta, dopo il calo del 2023. Ma restano lontane dai livelli di strutturazione visti nelle imprese più grandi.

Una revisione scientifica pubblicata su ResearchGate evidenzia cali di produttività dovuti a distrazioni domestiche, tecnostress, difficoltà di conciliazione con la vita familiare e problematiche legate alla natura di alcune mansioni. In particolare, le donne risultano penalizzate, soprattutto in presenza di figli piccoli: le responsabilità domestiche finiscono per sovrapporsi al lavoro, amplificando disuguaglianze preesistenti e ostacolando la concentrazione.

A rendere più complesso il quadro, c’è la difficoltà intrinseca nel misurare la produttività in un contesto flessibile. Il concetto stesso di produttività è multidimensionale: va oltre il semplice output orario e include fattori come l’efficacia complessiva, la qualità del lavoro, il benessere individuale e il contributo al team. Come nota il Politecnico, serve un cambio di paradigma: abbandonare la logica del controllo orario in favore di un approccio basato sui risultati e sulla responsabilizzazione.

In questo contesto, emergono alcuni fattori chiave che condizionano l’efficacia dello smart working:

  • Maturità dell’implementazione: le aziende che hanno strutturato lo smart working con policy chiare, strumenti tecnologici, riprogettazione degli spazi, cultura aziendale e leadership adeguata hanno registrato i migliori risultati. Nel 2023, il 52% delle grandi imprese italiane aveva raggiunto un alto grado di maturità, contro appena il 16% delle PA e il 15% delle PMI.

  • Stile di leadership: i manager “smart”, capaci di fissare obiettivi chiari, fornire feedback, promuovere fiducia e autonomia, risultano determinanti. Tuttavia, solo il 53% dei manager nelle grandi aziende si dichiarava favorevole al lavoro agile nel 2024; una percentuale che scende al 35% nella PA e al 27% nelle PMI.

  • Tecnologia e competenze: l’accesso a strumenti digitali adeguati e la capacità di usarli in modo efficace restano precondizioni essenziali per lavorare bene da remoto. Settori meno digitalizzati, o meno formati, hanno incontrato ostacoli rilevanti.

  • Contesto individuale e natura del lavoro: attività individuali e ad alta intensità cognitiva beneficiano spesso del lavoro da remoto. Al contrario, ruoli ad alta interazione sincrona o situazioni familiari complesse possono penalizzarne l’efficacia.

  • Benessere psicologico: lo stress, l’isolamento e il burnout riducono la produttività. Le organizzazioni che tutelano la salute mentale dei propri dipendenti ne traggono benefici anche in termini di performance.

I numeri disponibili, dunque, raccontano una realtà frammentata, in cui la possibilità di rendere lo smart working davvero produttivo dipende da fattori organizzativi più che tecnologici: cultura manageriale, chiarezza dei ruoli, accesso agli strumenti digitali e capacità di leadership. Dove questi elementi mancano, il lavoro agile resta sulla carta. Dove ci sono, fa la differenza.Smart working e lavoro da remoto non sono la stessa cosa

Nel lavorare insieme si fallisce se non c’è soddisfazione in tutte le persone coinvolte

Una delle confusioni più ricorrenti nel dibattito sul lavoro flessibile riguarda l’uso improprio dei termini “smart working”, “lavoro da remoto” e “telelavoro”, spesso trattati come sinonimi. In realtà, si tratta di modelli diversi, con caratteristiche giuridiche, organizzative e culturali ben distinte.

Il telelavoro è una modalità formalizzata di lavoro a distanza, regolamentata in Italia dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004, che recepisce l’accordo quadro europeo del 2002. Prevede che il lavoratore svolga la propria attività da una postazione fissa (solitamente il domicilio), con orari di lavoro stabiliti e concordati. È una forma di lavoro subordinato che mantiene una struttura rigida in termini di luogo e tempi, anche se fisicamente svolto lontano dalla sede aziendale. In genere ci sono sistemi software per controllare che il lavoratore resti al terminale per le ore concordate, svolgendo la propria mansione. L’accordo deve essere volontario, dettagliato e garantire gli stessi diritti di un lavoratore in sede, inclusi quelli in materia di salute e sicurezza.

Lo smart working – o lavoro agile – è invece una modalità molto diversa, definita dalla Legge 22 maggio 2017, n. 81. Si basa sull’assenza di vincoli di luogo e orario, sull’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, e sull’utilizzo flessibile degli strumenti digitali. Non si tratta semplicemente di lavorare “da casa”, ma di un modello culturale e organizzativo orientato all’autonomia, alla fiducia e alla responsabilizzazione.

Il confronto tra i due modelli è netto:

Caratteristica

Telelavoro

Smart Working

Luogo di lavoro

Fisso (domicilio)

Variabile, nessuna postazione predefinita

Orario di lavoro

Predefinito e rigido

Flessibile, nel rispetto dei limiti di legge

Strumenti tecnologici

Forniti e gestiti dal datore di lavoro

Utilizzati secondo accordi tra le parti

Controllo

Basato sulla presenza e sugli orari

Basato sul raggiungimento di obiettivi

Normativa

Accordo Interconfederale 2004

Legge 81/2017

Come sottolineano anche l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano e la Fondazione Consulenti per il Lavoroil lavoro agile non è una mera trasposizione del lavoro d’ufficio nella sfera domestica, ma una riorganizzazione completa dei processi lavorativi, delle responsabilità e delle relazioni tra persone e tecnologia.

Molte delle critiche rivolte allo smart working, in realtà, nascono da esperienze negative vissute durante la fase emergenziale della pandemia. Ma quello non era smart working, bensì lavoro da remoto forzato, spesso improvvisato, privo di strumenti adeguati e di una cultura organizzativa coerente.

Confondere il lavoro agile con il semplice “lavoro da casa” significa travisare l’intera posta in gioco: non si tratta di dove si lavora, ma di come si lavora, con quali strumenti, in quale cornice relazionale e con quale grado di autonomia. Chi critica lo smart working confondendolo con il telelavoro, o con il lavoro remoto emergenziale, sta giudicando una caricatura, non un modello evoluto.

Il lavoro agile è ancora percepito come una concessione temporanea, più che un vero modello organizzativo

Siamo tutti fannulloni... oppure no

Una delle argomentazioni più ricorrenti è quella del “fannullone in smart working”. L’idea che il lavoro da remoto favorisca l’inerzia, l’assenteismo o il disimpegno è profondamente radicata nell’immaginario di chi diffida del cambiamento. Ma questa visione, oltre a essere imprecisa, è sintomo di una cultura manageriale fondata sulla sfiducia.

Partiamo da un punto fondamentale: sì, esistono persone che lavorano poco e male. Ma averle a casa o in ufficio non cambia niente; esistono nel pubblico e nel privato, tra i dipendenti e tra i liberi professionisti. L’idea che il lavoro agile sia un rifugio per chi non ha voglia di fare nulla è una semplificazione ideologica, spesso alimentata da un pregiudizio politico nei confronti del lavoro subordinato e, più in generale, da una visione paternalistica dell’impresa.

È il vecchio paradigma del “se non ti vedo, non lavori”. Ma il lavoro non è sinonimo di sorveglianza. Il lavoro è fiducia, responsabilità, relazione. Il rapporto tra capo e collaboratore dovrebbe basarsi su questi tre pilastri. Quando invece viene costruito sull’assunto che chi sta a casa bara per definizione, allora abbiamo un problema molto più grave della produttività: abbiamo una rottura del patto professionale, che si traduce in demotivazione, passività, fuga dei talenti. 

Il capo medievale che non si fida dei suoi lavoratori, che li vede come un inevitabile fastidio, finirà per circondarsi proprio di quelle persone che detesta. Perché tutti i lavoratori buoni si terrano ben lontani da un personaggio del genere. 

Un corollario importante riguarda lo stato di salute del mercato: in Italia, purtroppo, certe volte non si trovano persone di valore anche se si ha la visione giusta e certe altre i lavoratori bravi devono adeguarsi ad aziende medievali perché non ci sono alternative. Quest’ultima tra l’altro è la ragione per cui moltissimi vanno a lavorare in altri paesi.

E se davvero in un team ci sono persone che battono la fiacca, la soluzione non può essere punire tutti con il ritorno coatto in ufficio. È un atteggiamento difensivo, che certifica l’incapacità di affrontare i singoli casi in modo adulto e manageriale. Il capo moderno – quello che sa fare il suo mestiere – ha strumenti per riconoscere chi non funziona, isolarlo, correggerlo o allontanarlo, a prescindere dal luogo in cui lavora. Quello che non può fare è nascondere la propria insicurezza organizzativa dietro la logica del “tornate tutti in azienda, così controllo meglio”.

La vera leadership si esercita anche e soprattutto nei contesti dove il controllo diretto non è possibile. È lì che emerge la qualità della comunicazione, la chiarezza degli obiettivi, la capacità di monitoraggio sano e trasparente. Se il capo non riesce a gestire una persona che lavora da casa, difficilmente riuscirà a gestirla anche in ufficio. Cambia lo spazio, non cambia la dinamica.

Serve un cambio di paradigma: abbandonare la logica del controllo orario in favore di un approccio basato sui risultati e sulla responsabilizzazione

Punire i molti per colpa di pochi è il contrario di una buona organizzazione: è una scorciatoia che danneggia chi lavora seriamente e protegge l’inefficienza sistemica. E spesso, quella scorciatoia è figlia di un’ideologia che vede nel lavoratore un soggetto da sorvegliare, piuttosto che un alleato da valorizzare.

La fiducia non è una concessione: è la base di ogni rapporto professionale sano. Dove manca fiducia, non serve nemmeno parlare di smart working. Serve parlare di cultura del lavoro. E di chi ha il compito – e la responsabilità – di costruirla.

Risultati e non tempo, con il giusto equilibrio

Uno dei principi più evocati quando si parla di smart working è quello del lavoro per obiettivi. In teoria, segna il passaggio da un’organizzazione basata sull’orario e sulla presenza a una fondata su fiducia, autonomia e risultato. Ma se applicato male, può trasformarsi in una deriva pericolosa: il ritorno mascherato al lavoro a cottimo.

Lavorare per obiettivi non significa scaricare tutta la responsabilità sul lavoratore, lasciandolo solo di fronte a richieste ambigue, scadenze irrealistiche o carichi crescenti. Gli obiettivi servono a dare direzione, non a esercitare pressione. Devono essere chiari, raggiungibili e coerenti con il ruolo. E soprattutto, vanno condivisi, monitorati con trasparenza e integrati nei processi aziendali.

123RF/wattanaracha
Smart Working
Smart Working

Il vero problema emerge quando, a posteriori, gli obiettivi vengono letti in modo strumentale. Se sono stati raggiunti, si dice che erano troppo facili; se non sono stati raggiunti, si incolpa il lavoratore senza analizzare il contesto. La responsabilità del leader è proprio quella di leggere i segnali, non emettere sentenze.

Bisogna anche distanziarsi da una visione in cui il risultato diventa prestazione isolata, scollegata da ogni contesto. Quella non è efficienza: è una nuova forma di precarietà. Una cultura del risultato, per funzionare, deve tenere conto anche della qualità del lavoro, del benessere e della sostenibilità.

Chi critica lo smart working confondendolo con il telelavoro, o con il lavoro remoto emergenziale, sta giudicando una caricatura, non un modello evoluto

L’alternativa non è tra rigidità e anarchia, ma tra un’organizzazione cieca al risultato e una leadership consapevole, capace di promuovere autonomia e responsabilità, senza abbandonare nessuno a se stesso.

Il ritorno in ufficio forzato

Negli ultimi mesi, molte aziende – tra cui colossi come Google e Amazon – hanno deciso di ridurre o eliminare le giornate di lavoro agile, imponendo il rientro in ufficio per l’intera settimana. La motivazione più ricorrente è la presunta necessità di recuperare produttività. Tuttavia, come mostrato dai dati precedenti, mancano evidenze solide a supporto di questa scelta.

Più che una strategia consapevole, sembra spesso una risposta difensiva: laddove mancano competenze manageriali e una cultura della fiducia, il rientro forzato diventa l’unico strumento rimasto. È il ritorno al controllo visivo come surrogato di leadership, una scorciatoia che non affronta i nodi organizzativi reali.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2024 solo il 53% dei manager delle grandi imprese si dichiara favorevole al lavoro agile. La percentuale crolla al 35% nella PA e al 27% nelle PMI, dove il divario non è spiegabile con i dati ma con la scarsa cultura gestionale. In un Paese fatto soprattutto di piccole e medie imprese, questo rappresenta un serio limite allo sviluppo di modelli più evoluti.

Spingere tutti a tornare in sede “per principio” non è un piano industriale, è un segnale di debolezza. Costruire un’organizzazione più solida richiede molto più di una convocazione in ufficio: servono processi chiari, comunicazione efficace, responsabilizzazione e capacità di guidare anche a distanza.

Partite IVA Vs dipendenti: basta confronti tossici

Tra i commenti più frequenti, è emersa la contrapposizione — implicita o esplicita — tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. Da un lato, chi vede il “vero professionista” come colui che rischia del proprio, lavora sempre e ovunque, senza orari. Dall’altro, chi sceglie il lavoro subordinato rischia di essere percepito come meno motivato o meno dinamico, soprattutto se chiede flessibilità.

Ma questa rappresentazione è semplicistica. Molti scelgono il contratto da dipendente per motivi legittimi: stabilità, accesso al credito, possibilità di pianificare la propria vita. Allo stesso modo, chi resta autonomo spesso lo fa per valorizzare competenze e strumenti in modo più flessibile, non per superiorità morale.

Lavorare per obiettivi non significa scaricare tutta la responsabilità sul lavoratore, lasciandolo solo di fronte a richieste ambigue, scadenze irrealistiche e carichi crescenti

Non si tratta di opporre modelli, ma di riconoscere che la professionalità non dipende dalla forma contrattuale, bensì dalla qualità del lavoro, dall’impegno e dai risultati.

Una narrazione che idealizza l’autonomo e sminuisce il dipendente rischia di nascondere squilibri, abusi e finte partite IVA, dove lavoratori subordinati sono formalmente classificati come autonomi per convenienza fiscale. Anche questo è un nodo del mercato da affrontare con serietà.

Ci sono partite IVA costrette, dipendenti sottopagati che fanno straordinari non riconosciuti, e professionisti eccellenti in entrambe le categorie. La dignità del lavoro sta nelle condizioni in cui si svolge, non nella fattura o nel badge.

Superare questo confronto tossico significa parlare finalmente di qualità del lavoro in termini universali: orari sostenibili, equità contrattuale, possibilità di crescita e rispetto reciproco. Perché un dipendente che lavora per obiettivi, con fiducia e flessibilità, è un professionista tanto quanto chi emette fattura.

Il mito del rapporto umano

Tra le critiche più ricorrenti allo smart working c’è quella relativa al rischio di isolamento: si teme che la distanza fisica indebolisca il gruppo, faccia perdere coesione, riduca il senso di appartenenza. È un timore comprensibile, ma va ricondotto alla sua vera origine: non è lo smart working a isolare, è la cattiva gestione.

Anche quando si lavora uno o due giorni a settimana da remoto — come avviene nella maggior parte dei casi — la qualità delle relazioni non dipende dalla presenza costante in ufficio. Appartenenza e coinvolgimento nascono da obiettivi chiari, comunicazione efficace, cultura aziendale condivisa.

Esistono persone che, pur essendo sempre in sede, si sentono escluse o scollegate dal progetto. E altre che, lavorando a distanza, si sentono parte attiva del team. La differenza la fanno la leadership, la cura nei processi, il modo in cui si costruiscono le interazioni.

L’ufficio può facilitare l’incontro, ma non basta a creare un ambiente coeso. Il lavoro in presenza non è di per sé una garanzia di benessere relazionale, così come lo smart working, se ben gestito, non è sinonimo di solitudine.

Il futuro del lavoro non è nella timbratrice, ma nella responsabilizzazione

Secondo l’Osservatorio Smart Working, le aziende più mature sono quelle che hanno investito nella comunicazione interna, nella formazione dei manager e nella condivisione dei valori. In questi contesti, la distanza fisica è stata gestita, non subita.

Il senso di appartenenza non si impone con l’orario, ma si costruisce con metodo, visione e cura. E il vero banco di prova per chi guida un’organizzazione non è dove lavorano le persone, ma se sentono di far parte davvero di qualcosa.

Altri vantaggi dello smart working

Lo smart working non è solo una questione di produttività o flessibilità: porta con sé anche benefici significativi in termini di benessere dei lavoratori, retention del personale e sostenibilità ambientale. Tuttavia, questi vantaggi non si realizzano automaticamente; richiedono un’implementazione strategica e consapevole.

Benessere e qualità della vita

Numerosi studi evidenziano che il lavoro agile può migliorare il benessere psicologico dei dipendenti. La riduzione del tempo dedicato al pendolarismo consente un migliore equilibrio tra vita lavorativa e personale, diminuendo lo stress e aumentando la soddisfazione lavorativa. Ad esempio, uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Business and Psychology ha dimostrato che lo smart working può migliorare la soddisfazione lavorativa e ridurre lo stress dei dipendenti. 

Un aspetto che va considerato, tuttavia, è che il risparmio di tempo, stress e costi personali dovuto al lavoro agile comporta anche una nuova forma di reciprocità: in molte realtà aziendali è considerato normale aspettarsi un impegno responsabile e risultati concreti in cambio di una flessibilità maggiore. Non si tratta di aumentare il carico di lavoro in modo arbitrario, ma di riconoscere che i benefici ottenuti da una migliore qualità della vita devono tradursi anche in un contributo lavorativo all’altezza delle nuove condizioni. 

... ma a volte in casa non si sta tanto bene

Attenzione però, perché “lavorare a casa” non è per tutti ugualmente facile. C’è chi ha una casa troppo piccola, dove non è possibile realizzare uno spazio dedicato al lavoro, e spesso i lavoratori più giovani vivono ancora con i genitori. Anzi, spesso e volentieri questa condizione si prolunga fino ai 40 anni e oltre. Limiti e complicazioni che possono rendere difficile lavorare da casa, e che in molti casi sono una ragione valida per preferire l’ufficio. Anche questo fattore va considerato con attenzione nelle politiche di lavoro agile.

Retention e Soddisfazione del Personale

La flessibilità offerta dallo smart working si traduce in una maggiore fidelizzazione dei dipendenti. Una ricerca condotta su 1.612 dipendenti di una grande azienda tecnologica ha rilevato che il gruppo con un modello di lavoro ibrido ha registrato un tasso di turnover inferiore del 33% rispetto a chi lavorava esclusivamente in ufficio. Inoltre, la soddisfazione lavorativa era significativamente più alta nel gruppo ibrido. 

Sostenibilità Ambientale

Lo smart working contribuisce anche alla sostenibilità ambientale. Secondo l’ENEA, in Italia, il lavoro agile permette di risparmiare circa 600 kg di CO₂ all’anno per lavoratore, riducendo anche le emissioni di altri inquinanti come PM10, PM2,5 e NOx. Questo beneficio è particolarmente rilevante nelle aree urbane, dove il traffico veicolare è una delle principali fonti di inquinamento.

Meno slogan, più fiducia: cambiare è difficile, ma necessario

Il dibattito sullo smart working è spesso inquinato da argomentazioni deboli, ideologie, slogan ripetuti, fallacie logiche e giudizi trancianti basati su esperienze personali. “Il portiere non può farlo in smart working, quindi è una sciocchezza per tutti”. “Io lavoro meglio in ufficio, dunque vale per chiunque”. “Mio cugino si grattava a casa, quindi tutti si grattano”. È il trionfo dell’aneddoto contro l’analisi, dell’ideologia contro l’organizzazione.

Ma un buon dibattito parte da un dato di realtà: lo smart working non è per tutti, non in ogni settore, non in ogni forma. Nessuno lo ha mai sostenuto. L’errore è usare questi limiti per negare il valore complessivo dello strumento, o per far finta dei molti vantaggi che porta. E soprattutto per giustificare un ritorno al passato che non risolve i problemi, li nasconde.

Sì, il cambiamento è difficile. Soprattutto quando tocca la cultura, le abitudini, le convinzioni più radicate; mettersi in dubbio è difficile ma a volte è l’unica cosa che vale la pena di fare. La resistenza deriva anche da fattori strutturali: l’età media della dirigenza italiana è tra le più alte d’Europa, anche se la statistica in questo caso potrebbe essere poco affidabile. Spesso e volentieri infatti le PMI non usano il contratto da dirigente, finendo per avere un dipendente “normale” o un quadro in un ruolo di dirigenza de facto. 

In ogni caso, spesso manca la formazione necessaria per gestire team distribuiti, per comunicare in asincrono, per valutare per obiettivi. Ancora troppo spesso la risposta è “si è sempre fatto così”, a cui segue una totale chiusura mentale. Solo che così l’azienda la distruggi un po’ alla volta. 

Non è così per tutti, per fortuna: Molti manager non sono contrari allo smart working per principio, ma perché non sanno come farlo funzionare. Non sono stati preparati. E questo è un problema organizzativo, non individuale, che fortunatamente ha una soluzione facile: ciò che non si sa fare, si può imparare. Il dirigente deve mettere la propria formazione personale al primo posto, e possibilmente evitare di giudicare un modello prima di averlo studiato a fondo. 

Soprattutto perché restare fermi non è un’opzione. Le imprese che hanno investito in flessibilità, fiducia e autonomia hanno ottenuto risultati migliori – in termini di performance, retention, sostenibilità. Quelle che hanno imposto il ritorno in ufficio per “principio” hanno spesso perso talenti e alimentato malcontento.

Il futuro del lavoro non è nella timbratrice, ma nella responsabilizzazione. Non è nella sorveglianza, ma nella fiducia. Non è nella nostalgia di modelli verticali e rigidi, ma nella costruzione di nuove forme di collaborazione, adattive e inclusive. Chi guida un’organizzazione oggi deve saper leggere il presente e costruire il domani. E per farlo deve rinunciare al controllo come feticcio, alla generalizzazione come scudo e al badge come unica garanzia di impegno. È il momento di sostituire la sfiducia con la leadership. E di parlare, finalmente, di lavoro con la serietà che merita.

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