Il recente DDL concorrenza ha rimescolato un po’ le carte nel mondo delle startup, cercando ufficialmente di facilitare la crescita delle piccole imprese innovative. Tuttavia nell’ambiente molti sono scontenti e c’è l’impressione che non tutti abbiano capito bene che cos’è e cosa può essere una startup.
La cosa più importante da affermare è, probabilmente, che le startup non sono piccole e medie imprese (PMI), ma piuttosto laboratori sperimentali che puntano a diventare imprese di grandi dimensioni - o spesso a entrare in una realtà enterprise tramite un’acquisizione (il passaggio noto come exit). A volte una startup si evolve in una PMI, ma succede solo occasionalmente e quasi mai è l’obiettivo iniziale dei fondatori.
Le startup hanno bisogno di finanziamenti
Almeno all’inizio una startup non ha un prodotto da vendere né mezzi per creare fatturato, e quindi dipende esclusivamente da finanziamenti esterni.
Il finanziamento delle startup si basa su un modello semplice e consolidato: l'imbuto. In questo sistema, un numero elevato di startup riceve risorse iniziali (pre-seed), meno startup ricevono risorse per proseguire (seed), ancora meno ricevono risorse per crescere (serie A), e pochissime ottengono risorse per eccellere (serie B, C e oltre).
Per avanzare in questo funnell ogni startup dovrà dimostrare di aver qualcosa si sempre più concreto, misurabile, affidabile e di qualità. Una promessa di profitto, per gli investitori, che deve essere via via più credibile.
Le fasi del finanziamento sono codificate internazionalmente e basate su criteri specifici:
- Pre-seed: Si basa principalmente sul capitale umano, ovvero un team con competenze coerenti con l'idea e il mercato.
- Seed: Si concentra sulla validazione dell'idea rispetto al target di clientela ('problem/solution fit'). Gli investitori cercano prove che i clienti potenziali siano disposti a comprare il prodotto.
- Serie A: Valida il modello di business ('product/market fit'). Si richiede dimostrazione di ricavi unitari ricorrenti e sostenibili.
- Serie B e successive: Si basano sul fatturato e sulla crescita effettiva dell'azienda.
Alla base dell'imbuto ci sono molti piccoli investimenti, mentre alla fine ci sono pochi investimenti di grande entità. La matematica finanziaria del settore dimostra che i successi delle pochissime startup arrivate in fondo all'imbuto ripagano ampiamente gli investimenti iniziali, coprendo anche le perdite di quelle che non ce l'hanno fatta. Chiaramente gli investitori cercano di diversificare dedicandosi a più di un progetto.
Il Contesto Italiano
Il quadro normativo italiano non adotta completamente questi principi. Per generare unicorni italiani – ovvero startup che superano il miliardo di euro di valutazione – è necessario andare nella direzione dei principi sopra descritti. Continuare su una strada diversa significa perdere tempo, risorse pubbliche e private, e competitività strategica.
In Italia, il panorama dei finanziamenti per le startup sta lentamente evolvendo, ma resta ancora molto da fare per competere con gli ecosistemi più avanzati come quello statunitense. I principali strumenti di finanziamento disponibili includono:
- Incubatori e Acceleratori: Strutture come H-Farm, Area Science Park o LUISS EnLabs offrono non solo capitale iniziale ma anche supporto logistico, mentoring e networking.
- Venture Capital: Fondi come P101, United Ventures e il fondo italiano di investimento partecipano attivamente al finanziamento delle startup, soprattutto nelle fasi iniziali.
- Crowdfunding: Piattaforme come Mamacrowd e Crowdfundme aiutano le startup a raccogliere fondi direttamente dal pubblico, spesso in cambio di quote di capitale.
- Agevolazioni Fiscali e Contributi Pubblici: Il governo italiano ha introdotto diverse misure per incentivare gli investimenti in startup innovative, come il credito d'imposta per ricerca e sviluppo e i finanziamenti del Fondo Nazionale Innovazione.
Nonostante questi strumenti, l'ecosistema italiano delle startup soffre ancora di alcune criticità, tra cui la burocrazia. L’ostacolo più rilevante, tuttavia, è che manca una vera cultura del fallimento, cioè quell’idea che bisogna provare e fallire più volte, per poter arrivare all’idea vincente. Qualcosa che ogni imprenditore sa molto bene, ma nel mondo degli investimenti in molto non sono ancora riusciti a interiorizzare questa idea.
Inoltre, di recente il Decreto Concorrenza ha deluso molte aspettative nel mondo delle startup italiane, poiché non ha apportato le riforme necessarie per un vero cambiamento.
Infastidisce, in particolare, l'obbligo di avere un capitale sociale di 20.000 euro. Un’imposizione che, secondo alcuni, taglia le gambe a molti giovani startupper, e potrebbe finire per avvantaggiare quei falsi innovatori il cui obiettivo è solo mettere le mani sui fondi di alcuni bandi pubblici.