In questo modo diciamo esser un infinito, cioè una eterea regione inmensa, nella quale sono innumerabili ed infiniti corpi, come la Terra, la Luna ed il Sole
Queste criptiche parole non sono ovviamente mie, bensì rappresentano la descrizione dell'Universo fatta da Giordano Bruno nel suo "De l'infinito, universo e mondi". Ho scelto di aprire in questo modo l'articolo non per dare sfoggio di erudizione, ma piuttosto per introdurre un lavoro di recente pubblicazione le cui implicazioni, personalmente, mi hanno fatto tremare i polsi.
Come molti di voi sapranno, dalla prima metà degli anni '90 gli astronomi hanno cominciato a scoprire e "osservare" un numero sempre crescente di pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare. Strumenti come Spitzer e Kepler hanno ottenuto risultati straordinari, identificando migliaia di pianeti extrasolari e negli ultimi anni è stato possibile persino trovare pianeti di tipo terrestre in fascia abitabile, potenzialmente in grado di ospitare la vita.
C'è un dettaglio però che spesso viene taciuto, o forse non sottolineato abbastanza, quando si discute di questi temi: tutti i pianeti trovati sinora appartengono a stelle della nostra galassia. Se ci pensate, ciò è abbastanza ovvio, in quanto con gli strumenti attuali è praticamente impossibile risolvere singole stelle in altre galassie (eccetto per quelle vicinissime, astronomicamente parlando, come le Nubi di Magellano, o per casi particolari come esplosioni di supernove), figuriamoci quindi dei pianeti. Alcuni ipotizzano che con la prossima generazione di strumenti, come il mostruoso LSST (Large Synoptic Survey Telescope), sarà forse possibile identificare qualche pianeta proprio nella Grande Nube di Magellano. Tutto ciò ovviamente si basa sui risultati di simulazioni, dato che LSST è ancora in fase di completamento. Fatto sta che sino ad oggi la rilevazione di pianeti "extragalattici" era impossibile.
Chiaramente, il fatto che la Via Lattea pulluli di pianeti di ogni genere ci porta ad assumere che lo stesso valga anche per le altre galassie. Tuttavia assunzioni di questo tipo in astrofisica sono sempre pericolose, perché il nostro Sistema Solare e la nostra stessa galassia costituiscono una frazione così risicata e insignificante dell'Universo, che dare per scontata qualunque cosa, anche la più ovvia in apparenza, potrebbe condurre a errori clamorosi. Con questo ovviamente non voglio negare il fatto che, con ogni probabilità, l'intero Universo sia pieno zeppo di pianeti, ma semplicemente, prima di poter considerare la loro esistenza assodata occorre osservarli, o comunque provarne l'esistenza al di là di ogni possibile dubbio. In altre parole, occorre essere certi che la Via Lattea non sia un "caso speciale" (cosa, va detto, altamente improbabile).
A questo punto la domanda è: come identificare oggetti così piccoli, rispetto alle distanze immense che separano le galassie tra loro, da essere affogati non solo nella luce delle loro stelle, ma anche in quella globalmente generata da tutta la galassia ospite, oltre che ben al di là del potere di risoluzione anche dei più potenti strumenti oggi in nostro possesso?
La risposta a questa domanda è forse arrivata grazie a un articolo pubblicato di recente da un gruppo di astronomi sull'Astrophysical Journal, in cui gli autori hanno dimostrato come sia possibile utilizzare la tecnica del microlensing per scovare pianeti extragalattici.
Vediamo di vederci più chiaro. Come abbiamo avuto già modo di discutere in passato, il lensing gravitazionale è un effetto previsto dalla Teoria della Relatività di Einstein. Secondo la teoria, la luce emessa da una galassia lontana, nascosta da una galassia più vicina e posta di fronte alla prima, viene deflessa a causa della curvatura dello spazio-tempo generata dalla massa della galassia stessa. Si forma così un'immagine distorta della galassia nascosta che circonda la galassia visibile come un anello o una serie di immagini multiple. In altre parole, la galassia più vicina agisce come una lente, rendendo possibile l'osservazione di un oggetto che altrimenti risulterebbe invisibile, seppure estremamente distorto e deformato.
Nel caso del microlensing parliamo dello stesso effetto applicato a stelle, che agiscono da lente per altre stelle (all'interno della Via Lattea) o per quasar posti alle loro spalle. A questo punto è necessaria una precisazione. I quasar sono ovviamente oggetti extragalattici, in quanto si tratta a tutti gli effetti di galassie, probabilmente in formazione, poste a grandissima distanza nell'Universo. Tuttavia a causa della loro enorme distanza essi possono essere trattati, da un punto di vista osservativo, a tutti gli effetti come stelle. Per questo motivo gli effetti di microlensing su di essi sono assimilabili. Fatto sta che nel caso del microlensing non è possibile osservare direttamente l'immagine distorta, in quanto l'effetto è troppo piccolo per essere apprezzabile. È possibile però rilevare una variazione nella curva di luce della lente causata dal sommarsi della sua stessa luce più quella dell'astro nascosto.
Il microlensing ha moltissime applicazioni differenti e ha permesso una serie di scoperte, in particolare proprio nell'ambito della ricerca di esopianeti. Nel lavoro in questione però, gli astronomi hanno pensato di osservare un sistema in cui la luce di un quasar distante circa 6 miliardi di anni luce viene deflessa da una galassia lente, RXJ 1131-1231, posta a circa 3,8 miliardi di anni luce. In questo modo, oltre a creare l'immagine distorta del quasar dovuta all'usuale lensing gravitazionale, la luce di quest'ultima attraversa la galassia, generando una miriade di effetti di microlensing causati dalle singole componenti della galassia stessa.
Occorre adesso tener presente che se una regione emittente ha dimensioni minori o comparabili a quella dell'anello di Einstein generato da un certo oggetto lente, allora l'emissione stessa risulterà influenzata in maniera significativa dal microlensing. In pratica, per farla semplice, gli astronomi si sono accorti che le dimensioni del buco nero contenuto nel quasar (o meglio del suo raggio di Schwarzschild), cioè l'area dalla quale proviene la maggior parte dell'emissione a causa del disco di accrescimento del buco nero stesso, sono comparabili con quelle dell'anello di Einstein generato da un pianeta delle dimensioni della Terra.
Globalmente ciò si tradurrebbe in un fenomeno di distorsione di alcune particolari righe spettrali, che rappresenterebbero la firma, per così dire, della presenza di pianeti. In particolare, gli astronomi affermano che le osservazioni possono essere spiegate ipotizzando la presenza, in media, di circa 2.000 pianeti con dimensioni comprese tra quella della Luna e di Giove, per ogni stella di sequenza principale contenuta nella galassia in esame. Il problema sta nel fatto che questa tecnica funziona solo per pianeti cosiddetti erranti, cioè non legati ad alcuna stella perché espulsi dal sistema di origine a causa di effetti gravitazionali o per altre ragioni. Fatto sta che al momento non è possibile utilizzarla per identificare pianeti extra-galattici appartenenti a un sistema stellare.
Capirete ovviamente che si tratta di una osservazione indiretta e ancora limitata, ottenuta spingendo al limite le potenzialità di una tecnica che, ad ogni modo, potrebbe riservarci ancora grandi sorprese. In ogni caso è un primo passo verso la scoperta di sempre nuovi pianeti, non più limitati ai confini del nostro "cortile" di casa cosmico.
Inoltre, le implicazioni di una scoperta del genere sulla ricerca di pianeti adatti a ospitare la vita, e della vita stessa nel Cosmo, sono chiare: tenendo conto dei numeri di cui abbiamo parlato, e del numero di galassie nell'Universo, le probabilità si impennano verso l'alto in maniera drammatica. Anche il solo pensare di essere soli, a questo punto, fa decisamente sorridere.
In conclusione, il lavoro di cui abbiamo parlato, pur con tutti i suoi limiti, apre una strada, in un territorio inesplorato. In fondo è proprio così che funziona la Scienza. Sono quelle cose, per dirla con le parole del Dr. Frankenstein (o "Frankenstin") nel famoso film Frankenstein Junior, che ti fanno esclamare: "SI-PUO'-FARE!".
Antonio D'Isanto è dottorando in astronomia presso l'Heidelberg Institute for Theoretical Studies in Germania. La sua attività di ricerca si basa sulla cosiddetta astroinformatica, ovvero l'applicazione di tecnologie e metodologie informatiche per la risoluzione di problemi complessi nel campo della ricerca astrofisica. Si occupa inoltre di reti neurali, deep learning e tecnologie di intelligenza artificiale ed ha un forte interesse per la divulgazione scientifica. Da sempre appassionato di sport, è cintura nera 2°dan di Taekwondo, oltre che di lettura, cinema e tecnologia. Collabora con Tom's Hardware per la produzione di contenuti scientifici.
Con il telescopio di casa non riuscirete di certo ad avvistare un Quasar, ma è sufficiente per osservare molte stelle e pianeti. Per orientarvi al meglio consigliamo il libro Primo Incontro Con Il Cielo Stellato, disponibile anche in formato Kindle.