Nell'ormai lontano 1945 un giovane neolaureato inglese, Arthur Charles Clarke, pubblicò un lavoro che avrebbe gettato le basi per le moderne telecomunicazioni. Nell'articolo dal titolo "Can Rocket Stations Give Worldwide Radio Coverage?", Clarke propose l'utilizzo dell'orbita geostazionaria per i satelliti. Con questo termine si intende quell'orbita in cui il periodo di rivoluzione di un satellite è uguale al periodo di rotazione della Terra. In pratica, per un osservatore posto a terra, il satellite apparirà fermo, motivo per cui quest'orbita è anche chiamata geosincrona. Lo sfruttamento di questa peculiarità si sarebbe in seguito dimostrato di straordinaria importanza per le telecomunicazioni e le trasmissioni televisive.
Clarke divenne in seguito ben più famoso per aver scritto il racconto e il romanzo dai quali sarebbe stato tratto il capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio, ma il suo lavoro di gioventù non fu dimenticato, e l'orbita geostazionaria è oggi conosciuta proprio come Fascia di Clarke, in suo onore.
Senza volerlo però, lo scrittore inglese potrebbe contribuire, un giorno, a rendere anche la fantascienza dei suoi racconti un po' più reale. Infatti, in un articolo pubblicato di recente su arXiv, e in via di pubblicazione sull'Astrophysical Journal, il Prof. Hector Socas Navarro dell'Istituto Astrofisico delle Canarie, propone l'utilizzo di eventuali "Eso-Fasce di Clarke" come marcatori per individuare la presenza di civiltà extra-terrestri moderatamente avanzate. Detta così sembrerebbe semplicemente fantascienza, ma in realtà l'idea è abbastanza concreta e tutto sommato semplice.
La nostra Fascia di Clarke è piena di satelliti, sonde e immondizia spaziale di varia natura. È difficile dare una stima esatta dei numeri, ma dovremmo essere nell'ordine di alcune migliaia di oggetti in orbita attorno alla Terra. Partendo dal presupposto che una civiltà che abbia raggiunto uno stadio tecnologico almeno pari al nostro avrebbe la tendenza a riempire in maniera analoga la Fascia di Clarke del suo pianeta d'origine, questo potrebbe fornire una prova concreta della loro presenza.
Infatti una fascia sufficientemente "affollata" costituirebbe una sorta di schermo opaco che darebbe un effetto tangibile nell'analisi della curva di luce del sistema stella-pianeta. In altre parole, quando si utilizza la ormai ben nota tecnica del transito per individuare il pianeta (la stessa utilizzata da Kepler ad esempio), la presenza di una Fascia di Clarke fittamente popolata potrebbe dar luogo a un ulteriore, parziale, assorbimento della luce, identificabile in una distorsione della curva di luce stessa.
L'autore dell'articolo ha eseguito una serie di simulazioni, giungendo alla conclusione che l'effetto potrebbe essere assolutamente rilevabile, con la prossima generazione di strumenti, purché le Eso-Fasce in questione presentino una popolazione di diversi ordini di grandezza superiore a quella che circonda la Terra. Infatti, le simulazioni eseguite immaginando un osservatore che tenti di analizzare il nostro pianeta, hanno dato esito negativo, imputabile al numero ancora insufficiente di oggetti in orbita geostazionaria. Modificando il parametro relativo alla densità della nostra Fascia di Clarke invece, la Terra risultava identificabile con gli strumenti tecnologici attuali.
Se dunque immaginiamo che il grado di avanzamento di una civiltà sia in qualche modo collegato all'affollamento della sua Fascia di Clarke (assunzione forse un po' temeraria, ma che può andar bene come ipotesi di lavoro), dobbiamo dunque assumere che potremmo rilevare per mezzo di questo marcatore popolazioni mediamente più avanzate della nostra. Al nostro tasso di sviluppo e di messa in orbita di satelliti, parliamo di alcune centinaia di anni. Chiaramente si tratta di estrapolazioni che potrebbero rivelarsi anche completamente errate, poiché una civiltà più avanzata potrebbe sviluppare strumenti per le telecomunicazioni più efficienti o tecnologie completamente differenti. Ad ogni modo, le stesse simulazioni eseguite per Proxima b o per TRAPPIST-1 sembrano fornire indicazioni confortanti, dal punto di vista dell'osservabilità.
Un possibile problema nell'utilizzo di questa tecnica, spiega l'autore, potrebbe derivare dalla presenza di anelli, il cui effetto di schermo sulla curva di luce sarebbe grosso modo simile a quello di un'affollata Fascia di Clarke. Tuttavia ci sono due elementi da tenere in considerazione. Primo, la forma della distorsione sarebbe differente, a causa della diversa geometria dei due sistemi. Secondo, per quanto ne sappiamo finora, sulla base delle nostre conoscenze limitate quasi esclusivamente al Sistema Solare, sembrerebbe che la formazione di sistemi di anelli sia favorita per pianeti posti oltre la linea della neve, dato il loro elevato contenuto di ghiaccio. In ogni caso, la ricerca di esoanelli ed esolune è ancora ai suoi primordi (link articolo precedente). Solo nei prossimi anni ne sapremo abbastanza da poterne ragionare su basi fisiche più concrete e non legate alla nostra limitata conoscenza, ancorata al Sistema Solare.
Leggi anche: Gli esopianeti ci sono adesso cerchiamo esolune ed esoanelli
Probabilmente, tra i marcatori sinora proposti che potrebbero indicare la presenza di civiltà tecnologicamente avanzate, quello della Fascia di Clarke è il più realistico ed efficiente, quanto meno per la rilevazione di strumenti tecnologici. Altre proposte come quella relativa alle Sfere di Dyson, oltre a rimanere per il momento poco più che giochi (fanta-)scientifici, potrebbero indicare civiltà estinte o non più presenti in quel luogo da tempo. Un gran numero di satelliti in orbita richiede invece una manutenzione pressoché costante, il che sarebbe indice di un'attività biologica in corso sul pianeta.
Chiaramente, stiamo pur sempre tentando di comprendere popoli che potrebbero aver seguito uno sviluppo completamente diverso, o essere a uno stadio di evoluzione tale da rendere totalmente inutile questo tipo di analisi. Al momento in effetti, l'unica cosa che possiamo fare per tentare di capire se là fuori c'è davvero qualcuno, è compiere estrapolazioni in base al percorso evolutivo che noi stessi abbiamo compiuto sul nostro pianeta, immaginando che il loro modo di agire sia analogo al nostro. La storia ci mette in guardia da queste assunzioni, ma purtroppo è l'unico punto di partenza che ad oggi abbiamo. La speranza è che strumenti come JWT (James Webb Space Telescope) e E-ELT ci consentiranno presto di osservare esopianeti con un dettaglio maggiore, identificando lune e anelli e studiandone persino le atmosfere. Questo darebbe la possibilità di ricercare non soltanto marcatori tecnologici, ma anche biologici, in grado di provare l'esistenza della vita.
Antonio D'Isanto è dottorando in astronomia presso l'Heidelberg Institute for Theoretical Studies in Germania. La sua attività di ricerca si basa sulla cosiddetta astroinformatica, ovvero l'applicazione di tecnologie e metodologie informatiche per la risoluzione di problemi complessi nel campo della ricerca astrofisica. Si occupa inoltre di reti neurali, deep learning e tecnologie di intelligenza artificiale ed ha un forte interesse per la divulgazione scientifica. Da sempre appassionato di sport, è cintura nera 2°dan di Taekwondo, oltre che di lettura, cinema e tecnologia. Collabora con Tom's Hardware per la produzione di contenuti scientifici.
Siamo davvero un caso unico, o la vita nel Cosmo è probabile? Scoprite le teorie più accreditate con il superlativo libro Il complesso di Copernico. Il nostro posto nell'universo di Caleb Scharf.