Pensavano di star sfruttando un'IA e invece dietro c'erano persone sottopagate. È quanto emerge dal recente caso di Albert Sangier, fondatore di Nate, finito al centro di un'indagine del Dipartimento di Giustizia americano che ha svelato uno schema fraudolento mascherato da ipotetica innovazione tecnologica basata su IA.
La startup, che prometteva una rivoluzionaria app di pagamento universale basata su intelligenza artificiale, ha raccolto oltre 40 milioni di dollari da investitori ignari che credevano di sfruttare un'IA, ma che in realtà dietro si nascondevano lavoratori in carne e ossa dall'altra parte del mondo.
Fondato nel 2018, Nate si presentava come un'applicazione all'avanguardia capace di semplificare gli acquisti online grazie a un sistema di checkout universale guidato dall'intelligenza artificiale. La promessa era allettante: un'unica piattaforma per completare transazioni su qualsiasi sito web, tutto gestito automaticamente da sofisticati algoritmi. Una narrazione che ha convinto numerosi investitori a scommettere sul progetto di Sangier, permettendogli di raccogliere oltre 40 milioni di dollari di finanziamenti.
L'atto d'accusa presentato dal Dipartimento di Giustizia americano rivela però una realtà ben diversa. Dietro la facciata tecnologica si nascondeva una rete di lavoratori in Filippine e Romania che eseguivano manualmente le operazioni presentate come automatizzate. In alcuni casi venivano impiegati semplici bot, ma nulla che potesse essere definito come vera intelligenza artificiale. Un inganno orchestrato consapevolmente, secondo gli inquirenti, per attrarre capitali presentando come rivoluzionaria una tecnologia che in realtà non esisteva.
L'indagine giudiziaria conferma quanto già emerso nel 2022 grazie a un'inchiesta giornalistica condotta da The Information. Secondo fonti interne citate dalla pubblicazione, durante il 2021 la percentuale di transazioni gestite manualmente da Nate oscillava tra il 60% e il 100%, smontando completamente la narrazione aziendale incentrata sull'automazione intelligente.
Il caso Nate non è un'anomalia nella storia dell'imprenditoria, ma piuttosto l'ultima incarnazione di una pratica antica: presentare il lavoro umano come innovazione tecnologica o meccanica. Nel corso dei secoli, numerosi imprenditori spregiudicati hanno cercato di arricchirsi attraverso simili mistificazioni. L'intelligenza artificiale rappresenta semplicemente l'applicazione più recente di questo schema all'era digitale, sfruttando la complessità della tecnologia e la difficoltà di verificarne il reale funzionamento.
La vicenda solleva interrogativi fondamentali non solo sulle pratiche commerciali di Nate, ma anche sul fenomeno più ampio dell'AI-washing, ovvero la tendenza a etichettare come "intelligenza artificiale" prodotti o servizi che in realtà ne fanno un uso minimo o nullo. In un momento storico in cui l'AI catalizza investimenti miliardari, la tentazione di sfruttarne il richiamo per attrarre capitali diventa irresistibile per molti imprenditori, anche a costo di rappresentazioni fuorvianti delle proprie tecnologie.
L'indagine su Sangier mostra un'attenzione particolare da parte delle autorità verso le false dichiarazioni nel settore tecnologico, specialmente quando queste servono ad attrarre investimenti significativi. La vicenda potrebbe rappresentare un importante precedente per future azioni legali contro aziende che esagerano le capacità delle proprie tecnologie IA per finalità commerciali o finanziarie.