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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Disincanto si appresta ad arrivare su Netflix, e i fortunati che ne hanno già potuto fruire hanno recensito la nuova serie di Matt Groening, papà dei Simpson, come uno degli show animati più stuzzicanti dell'anno. Spigliato, maturo, assolutamente disilluso nei confronti di quello che è il rincipio alla base di qualunque favola tipicamente intesa.

C'è una principessa, sì, ma questa non ha alcuna intenzione di maritarsi, ed anzi, sovvertendo del tutto il suo ruolo all'interno del modello favolistico, è piuttosto incline ad alzare il gomito ed a creare scompiglio, costando a suo padre, il Re, che la vorrebbe maritata, un notevole imbarazzo.

Disincanto parte fondamentalmente da qui, e per poter godere a pieno della sua prima run da 10 episodi (dei 20 commissionati da Netflix) non resterà che aspettare i pochi giorni che ci separano dalla messa in onda.

Abbiamo deciso di ingannare l'attesa senza però distaccarci dal pensiero di Matt Groening, il genio della sit-com, prima ancora dell'animazione, che dando alla luce i Simpson nel lontano dicembre 1989, ha cambiato per sempre le regole dell'animazione statunitense. Creando un caso mediatico, influenzando innumerevoli emuli, e dando alla luce quella che è, a tutti gli effetti, la sit-com più lunga della storia, nonché lo show animato più lungo di sempre, scalzando di prepotenza il precedente primato de Gli Antenati, o The Flinstones che dir si voglia.

Classe 1954, Matt Groening nasce e cresce a Portalnd, in Oregon da Margaret e Homer Groening, i cui nomi vi suoneranno certamente familiari.

Matt è indolente, quasi pigro, e si scontra spesso con i suoi professori, che sin da piccolo lo tacciano di sprecare la sua vita davanti alla TV. Ma Matt quella TV la adora, e in particolare si appassiona alle sit-com dell'epoca come "Il carissimo Billy" (Leave it to Beaver), "Papà ha ragione" (Father knows best) ,"Dennis La Minaccia" (Dennis The Menace) e The Adventures of Ozzie ad Harriet (da noi mai arrivato).

Show particolarmente popolari ai tempi della sua infanzia, che raccontano di un'America familiare e melensa, concentrata tra le mura di casa e impegnata tra buoni propositi e facili moralismi in bianco e nero.

Salvo per alcuni momenti in cui, per ilarità e per accentuare la risata del pubblico, si cerca di far leva su alcune piccole repressioni familiari. Indolenza, repressione, piccoli conflitti dati dalle incomprensioni familiari. Suo padre, Homer Philip Groening, è un cartoonist, e lavora a stretto contatto con il mondo del cinema, della pubblicità e dei cartoni animati.

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Groening cresce immerso nella pop culture, riversata in casa per mezzo di libri, fumetti, dischi e gli schizzi di lavoro di suo padre, che ispirano il ragazzo verso il mondo del disegno, tanto da portarlo a iscriversi, in quel di Olympia, Washington, al The Evergreen State College, un college dallo spirito liberale, nella cui gazzetta muove i primi passi verso il mondo del disegno e dell'animazione.

Sono questi gli anni in cui comincia a raccogliere le prime ispirazioni visive, lasciandosi influenzare positivamente dall'amicizia con Linda Barry, allora semplice studentessa come lui, oggi Eisner Award nel 2009 con il suo splendido What it is, un'opera grafica, quasi un saggio, su come un artista dovrebbe lasciarsi guidare dalla propria ispirazione.

In particolare, guarda con ammirazione Schulz, che con i suoi Peanuts sta riscrivendo le regole del fumetto della domenica, creando un prodotto leggero, divertente e praticamente eterno. Ancor di più, sotto l'influenza del padre Homer, sperimentale, pop, incantato, prende conoscenza del lavoro di Ronald Searle, cartoonist satirico, e personaggio importantissimo per lo sviluppo del cartone animato americano e non solo, dal 1950 a seguire, tanto da aver influenzato artisti come Groening, Oliphant e persino John Lennon.

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Proprio lo stile di Searl, spesso surreale e grottesco, dark in molti dei suoi aspetti, resteranno per Groening un ricordo vivido che sarà poi di fondamentale importanza per l'elaborazione del suo primo e importante lavoro: Life in Hell. È il 1977.

Bongo è un coniglio antropomorfo con un solo orecchio. La sua strip, Life in Hell, nasce come auto produzione mentre Matt lavora pigramente in un negozio di Los Angels, città in cui si è trasferito dopo il college ed in cui vive una vita spensierata ma disillusa. Los Angeles non è la città dei sogni che il cartoonist si aspettava, e mentre fa i turni in un locale negozio di dischi comincia a disegnare situazioni che descrivono alcuni aspetti della sua vita.

Sono questi gli anni di Frank Zappa, dei movimenti di protesta, della ricerca di una rottura delle regole imposte dalla società, e tutto questo si riversa in Life in Hell come un fiume in piena. Ispirato allo stile grafico semplice ma efficace di Searle, Groening propone delle strisce pungenti e satiriche, in cui attacca tutto quello che è visto da lui come una forma di oppressione: la scuola, il lavoro e persino l'amore, ambito in cui non ha molta fortuna.

Circolando con successo nella scena underground, Life in Hell avrà la sua svolta quando finirà sotto l'occhio dell'editor della rivista Wet, un magazine di cultura che fa un largo uso dell'arte grafica, partendo dalla copertina, sino ai layout delle sue pagine.

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Nel '78 Groening e Life in Hell sbarcano su Wet, sino al 1980 quando si trasferisce sul Los Angeles Readers. Sarà questo il momento della vera svolta, perché grazie al Reader, Life in Hell finirà sotto i riflettori di Hollywood, per mezzo di James L. Brooks, che avendo trovato le strisce sfiziose e taglienti, si metterà in contatto con Groening per proporgli uno spazio all'interno di un popolarissimo programma serale: il The Tracy Ullman Show. Nascono così i Simpson, l'anno è il 1987.

Quando si presenta l'occasione, Groening ripensa alla sua infanzia, agli show che guardava da bambino e comincia a chiedersi quale tipo di show vorrebbe vedere, basandosi sulla sua esperienza da spettatore, ma soprattutto su quelle che sono le introspezioni e le pulsioni nate nel corso della pubblicazione di Life in Hell.

Le sit-com della sua infanzia diventano quindi la principale fonte di ispirazione per quel lavoro che, oggi, è conosciuto come The Simpsons. Groening è affascinato dall'idea che dietro la facciata di una famiglia felice, quella imposta dalla TV statunitense, ci sia in realtà una serie di pigrizie e ipocrisie.

In particolare, lo affascina l'idea che ogni bambino sia potenzialmente "una minaccia", come il suo Dennis in TV, che creava non pochi grattacapi ai vicini nei suoi continui e divertenti siparietti quotidiani.

Dennis la minaccia, neanche a dirlo, fu la principale ispirazione per il personaggio di Bart, il cui nome altro non è che la storpiatura di "Matt", poiché se dal rifiuto dei principi della sit-com americana Groening prese le tematiche di base, fu dal suo stretto nucleo familiare che ricalcò i personaggi, cercando talvolta di accentuarne i difetti, altre volte creandone di completamente nuovi atti a evidenziarne l'ilarità.

I suoi genitori divennero quindi Homer e Marge Simpson, e riprese anche i nomi di Abraham, Lisa e Maggie per i restanti personaggi della famiglia. Rispettivamente, come nel cartoon, nonno e sorelle del malefico Bart.

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Groening ha in testa una sola idea: vuole che la famiglia del suo show sia sarcastica, vibrante, al di sopra dello standard televisivo che aveva influenzato la sua generazione. Vuole tinteggiare quel senso di repressione che alberga nel cuore dell'americano medio che fa parte della sua generazione, e vuole dar voce a quei lati più nascosti e repressi dell'indole, che il buon costume vorrebbe mascherare dietro una facciata di normalità.

La sua famiglia sarà una famiglia media, senza pretese, ma attraverso le cui storie di continua "contraddizione" lo spettatore si possa divertire cercando di colmare quel gap che esiste tra l'illusione creata dalla sit-com, e il mondo reale.

Homer è l'esempio perfetto di questo principio. Americano medio, un uomo comune. Sovrappeso, con poca voglia di lavorare, spesso "incastrato" tra le vicende di una famiglia che lo obbligano, quasi per sport, a sfogarsi tra una sbronza e l'altra. È il padre tipico della sit-com per il ruolo familiare che riveste, ma contemporaneamente ha dalla sua tutta una serie di emozioni complesse, che spaziano dalla gioia ad una rabbia incontrollabile, laddove certe sperimentazioni dei sentimenti umani, salvo che per motivi prettamente di ilarità, erano del tutto estranei alla sit-com televisiva d'epoca.

Vuole, insomma, rappresentare una realtà che possa, talvolta, essere spiacevole, facendo ridere, ma anche riflettere.

Queste tematiche, paradossalmente, si ripercuoteranno anche in Futurama, il suo terzo lavoro, ambientato in un futuro fantascientifico in cui mostri, creature aliene, robot e esseri umani, vivono in uno stato di consapevole ignoranza, a dispetto di una tecnologia incredibile che sembra venuta fuori, quasi per caso, da alcuni sconclusionati ma riconosciuti geni della scienza.

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Lo show nasce nel 1996 ed a commisisonarlo è la Fox. La casa di produzione, del resto, ospita ormai i Simpson da un decennio, da quando lo show è passato dall'essere una clip di qualche minuto messo su nel corso del Tracy Ulmman Show, ad una vera e propria serie con episodi di oltre 20 minuti, che senza sosta va ormai in onda continuativamente, anche in prime time, proprio sulle reti Fox.

Il network vuole un prodotto fresco e originale, che non sostituisca i Simpson, e neanche che rimpiazzi gli emuli che sono nati nel mentre, ma che si affianchi agli stessi e che catturi magari un nuovo pubblico.

Groening progetta quindi, assieme al suo amico e socio David X Cohe, quello che oggi conosciamo come Futurama ovvero: il principio di sovversione delle regole tipico di Groening, applicato stavolta ad un altro popolare genere televisivo (e radiofonico), la science fiction. Si ripescano le tematiche tipiche di Arthur C. Clarke, della più popolare cinematografia di genere, e si coniugano ad una serie disparata di tematiche quali la religione, il concetto di predestinazione, l'ignoranza ma anche la scienza, la fisica quantistica e la robotica.

Futurama non nasce con l'intento di rinnovare le tematiche dei Simpson, ma di sovvertire di nuovo le regole, testando il "metodo Groening" su di un nuovo universo narrativo, del tutto liberi dalle regole imposte dalla volontà del network che, difatti, non apprezza particolarmente la presenza di teste mozzate, di cabine del suicidio e di Richard Nixon, redivivo presidente degli Stati Uniti anzi, del mondo intero.

Groening però non ci sta, e rifiutando ogni censura convince il network a dare fiducia alla prima stagione, dopo aver finanziato di tasca propria la creazione dell'episodio pilota. Neanche a dirlo Futurama è un successo.

Il "trucco" di Groening è tanto evidente quanto complesso: come per i Simpson non vengono snaturate le tematiche di base del racconto di finzione, in questo caso quello fantascientifico che alimenta la fantasia sin dai tempi della radio, ma si associa allo stesso un nuovo insieme di regole che ne ricodificano le tematiche. Il linguaggio, poi, è quello spigliato e scanzonato tipico dell'autore, che ha messo una bottiglia di birra in mano ad un robot linguacciuto, ed ha sovvertito le regole secondo cui l'eroe, o meglio, il protagonista, debba essere un conclamato faro di speranza per l'umanità.

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Fry, di fatto il protagonista centrale della serie, è pigro, stupido, spesso del tutto incosciente del male che fa a sé stesso ed agli altri. È un fattorino, eppure salva varie volte l'universo e i suoi amici, dimostrando che la vecchia meccanica de "l'eroe a tutti i costi" non significa nulla per il racconto moderno, che può essere invece sporco, disilluso, persino crudele nello spiattellarci in faccia momenti di pura tristezza, nascosti furbescamente tra battute e ilarità.

Questo è il genio sovversivo di Matt Groening: la sua capacità di riscrivere le regole a uso e costumo del linguaggio più comodo, ma non per questo becero, dello spettatore comune. Nascondere le tematiche, i sofismi e le riflessioni in modo così subdolo da richiedere allo spettatore un mood emotivo, ed una chiave di lettura, completamente diversi rispetto ad una qualunque visione "pomeridiana", messa in TV per farsi compagnia mentre si pranza o si cena.

Da Disincanto, quindi, ci aspettiamo ancora questo. Non la distruzione del topos fantasy, che tra principesse, elfi e cavalieri ha dettato legge dalla letteratura al cinema, ma la trasformazione dello stesso in un prodotto che, pur essendo fantastico, ci racconti un po' di noi stessi e del mondo che ci circonda. Da Life in Hell Matt Groening non ha fatto altro che questo: raccontare il mondo e le sue contraddizioni per mezzo di uomini gialli, robot e conigli.


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