Medioevo e Rinascimento, i padri italiani della crittografia
Verso l'anno 1.000 comparvero i primi cifrari "moderni", complesse liste di parole e tabelle da usare per codificare e decodificare un messaggio. Verso la fine di questo periodo storico l'uso della crittografia è piuttosto diffuso per le comunicazioni diplomatiche. Sono stati introdotti simboli di fantasia al posto di numeri e lettere, un discreto livello di variabilità (più simboli per una stessa lettera) e l'uso delle nulle (simboli senza una corrispondenza).
In questo periodo viene introdotto il concetto di chiave, più o meno la password come la conosciamo oggi. Una parola segreta necessaria per decodificare il messaggio.
Pare che si debba a G. Cardano l'invenzione della cifratura con polifoni, alla fine del XV secolo. L'idea è che un segno cifrante possa avere più di un significato. Questo rende il sistema più complesso e quindi più difficile da decifrare, molto resistente all'analisi statistica, ma anche più laborioso: codificare a mano un messaggio è una vera faticaccia.
Nel 1466 Leon Battista Alberti pubblica il suo De Cifris, un vero e proprio trattato sulla crittografia. Qui propone l'uso del suo doppio disco: due anelli, quello esterno con 24 fra lettere maiuscole e numeri, quello interno con sole lettere minuscole. Il disco interno è mobile, mentre quello esterno è fisso. Mittente e destinatario devono possedere due dischi identici, e accordarsi sul metodo di cifratura da usare (ne sono possibili diversi, più o meno complessi).
Quasi un secolo dopo, nel 1563, Giovanni Battista Della Porta pubblica un nuovo trattato, De Furtivis literarum notis - vulgo de ziferis. Il suo cifrario più noto è la "Tavola Della Porta". Propone un livello di complessità molto alto, con una chiave di decodifica lunga e complessa. Se la tabella di partenza è abbastanza disordinata e la chiave sufficientemente lunga, la decodifica (a mano) è pressoché impossibile per chi non ha la chiave. Il Della Porta ha probabilmente plagiato, o si è almeno ispirato, a Bellaso, che in un testo del 1553 aveva pubblicato tavole di cifrature molto simili.
Ancora più importante, forse, il lavoro di Blaise de Vigenere, che nel 1586 pubblica il codice di cifratura che poi prende il suo nome. È un codice di sostituzione polialfabetico più semplice rispetto a quelli proposti dagli italiani, e lo si può vedere come un'evoluzione del codice di Cesare. Nonostante la sua semplicità si dimostrò resistente: fu considerato inattaccabile per secoli, fino alla comparsa del metodo Kasiski, dal nome del generale prussiano che nel 1863 trovò una debolezza nel cifrario Vigenere - ma intanto erano passati tre secoli. Il metodo di Vigenere è comunque ancora molto valido, sempre che si usi una chiave di lunghezza comparabile a quella del testo da codificare.